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letture critiche del tempo presente

PER UNA STORIA DELL’ANTISEMITISMO

 Di nuovo l’antisemitismo?

Le Stelle di Davide vengono disegnate a marchiare case e luoghi ebraici, le pietre di inciampo, che ricordano le vittime della Shoah, sono state bruciate a Roma, nelle manifestazioni di piazza e nei commenti sui social si riprendono invettive che ricalcano secolari stereotipi antigiudaici, mentre il vero e proprio pogrom compiuto da Hamas il 7 ottobre è stato subito dimenticato da tanti ora impegnati ad accusare Israele di “sterminio” e “genocidio”: si può parlare di una nuova ondata di antisemitismo?

Che cosa pensare di quei canali “antisistema”, “rosso-bruni” (più bruni che rossi), sui quali si attribuisce agli ebrei, o agli “askhenazy” o ai “nasoni”, un “complotto” che ricalca precisamente le linee del famoso e famigerato falso “I Protocolli dei Savi di Sion”, pietra miliare dell’antisemitismo?

L’antisionismo è una legittima critica allo Stato di Israele e alla sua politica o è antisemitismo mascherato?

La questione va valutata seriamente, non solo, come è ovvio, per l’orrore che l’antisemitismo ha prodotto in un passato sia remoto che recente, ma perché l’antisemitismo è il prototipo, il modello di ogni discriminazione, esclusione e persecuzione. Chi ha a cuore libertà e diritti civili, chi, per un motivo o per un altro, un giorno o l’altro, si è trovato o potrebbe trovarsi nella condizione di minoranza esposta alla discriminazione, dovrebbe quindi occuparsi seriamente della questione.

Soprattutto dovrebbe occuparsene chi molto recentemente è stato colpito dal “paradigma del disprezzo”, elemento fondante dell’antigiudaismo/antisemitismo, è stato marchiato con un segno di infamia, o meglio con il suo contrario, con la mancanza di un sigillo, il Green Pass, ed ha subito – per pochi mesi, certo, e senza finire nei lager – molte di quelle discriminazioni riservate in passato ai giudei.

Purtroppo, per valutare seriamente la questione occorre una sicura conoscenza storica, che è spesso assente o carente. E così molti sono “antisemiti a propria insaputa”, nel senso che rilanciano i tipici stereotipi secolari, contribuendo a perpetuarli, senza esserne consapevoli e scambiandoli per legittime critiche ad Israele.

Per tutti questi motivi ho deciso di dedicare una serie di lezioni, sempre del ciclo “Letture critiche del tempo presente”, alla storia dell’antisemitismo. Questo articolo, con il relativo video che trovate sul mio canale You Tube, è introduttivo e riguarda un preliminare ed essenziale chiarimento sul significato dei termini “antiebraismo”, “antigiudaismo”, “antisemitismo” e “antisionismo”. Affronta inoltre un altro intricato problema preliminare: che cosa è l’ebraicità? Chi è l’ebreo?

Le videolezioni successive saranno rivolte solo agli interessati che faranno pervenire la loro iscrizione alla mail angelomicheleimbriani62@gmail.com.

Antiebraismo e identità ebraica

Vi sono tre parole diverse per definire l’ostilità contro gli ebrei: antiebraismo, antigiudaismo e antisemitismo. E a questi tre termini se ne potrebbe aggiungere ancora un altro: antisionismo.

Antiebraismo è il termine meno usato e ha in effetti un’accezione troppo vasta e insieme troppo generica. Da un lato, il termine ebreo è già biblico e la storia del popolo ebraico incomincerebbe con Abramo e gli altri patriarchi e proseguirebbe con i Regno di Israele a partire dal 1000 a.C circa, Dall’altro lato per parlare di antiebraismo bisognerebbe prima chiarire chi è l’ebreo ed è una questione intricata più ancora che complessa.

Ma è bene partire proprio da tale questione per impostare correttamente tutto il nostro discorso.

 L’ebraicità non si può ridurre a un dato etnico, in quanto fin dall’antichità – ed anzi molto più nell’antichità che oggi – l’ebraismo conosce la figura del “proselito”. Il proselito è un “gentile”, un goj di nascita, che ha aderito all’ebraismo, è stato circonciso se è maschio, e si impegna a rispettare alcune norme fondamentali. Si può essere ebrei, quindi, o perché si è nati da madre ebrea (la trasmissione è infatti matrilineare, tranne che per le tribù sacerdotali, nelle quali l’ebraicità è determinata dal padre) o come proseliti. Persino il Giobbe della Bibbia è un proselito e non un ebreo “etnico”.

L’ebraismo non si può neanche risolvere in una certa religione, sia perché questa religione si esprime in un sistema culturale, in una civiltà, in degli usi e costumi, peraltro con notevoli articolazioni al suo interno, con una notevole pluralità, sia perché, specie dal XIX secolo in poi, vi sono molti ebrei atei e agnostici che tuttavia si considerano ebrei a tutti gli effetti.

Ancor meno l’ebraismo si può ricondurre ad una determinata terra, visto che per millenni la maggior parte degli ebrei hanno continuato ad essere tali pur vivendo lontano da quella terra.

Se tutto questo è vero, se l’ebraismo non si risolve e si identifica né in un popolo, né in una religione, né in una terra, è altrettanto vero che l’ebraismo, tuttavia, non prescinde da questi tre elementi e dal loro intreccio. Non si può adottare nessuna di queste equazioni – ebreo=etnia, ebreo=religione, ebreo=terra – ma non si può fare a meno di nessuna di esse.

L’etnia non può essere considerata un elemento secondario o addirittura irrilevante. La religione ebraica conosce sì il proselitismo, ma non ha avuto storicamente la stessa portata universalistica del cristianesimo e dell’islamismo (diversa è la prospettiva nell’ebraismo guardando all’età messianica, quando le nazioni, le genti – come afferma Isaia – saranno incluse nel popolo di Dio e quindi in Israele) ed il suo rapporto con un certo popolo è più marcato di quello che ha l’islam con i popoli arabi, per non parlare del cristianesimo che, essendo nato proprio come corrente del giudaismo, non ha mai avuto se non nei primissimi decenni un suo popolo “speciale”.

Nonostante il notevole numero oggigiorno di ebrei non religiosi, neanche la religione può diventare elemento secondario. In primo luogo, è significativo che solo un ebreo di nascita può permettersi di essere non credente e non religioso e restare ebreo, avendo diverse possibilità per affermare la sua “ebraicità”, ma un “gentile” che entra nell’ebraismo deve necessariamente entrarvi dalla porta della religione.

In secondo luogo, molti, se non tutti gli ebrei non religiosi hanno comunque un rapporto con la religione che non è minimamente paragonabile a quello che può avere ad esempio un ateo cresciuto in una famiglia cattolica. C’è un gustoso dialogo riportato in Laicità, grazie a Dio di Stefano Levi Della Torre. Un ebreo chiede ad un’altra persona: tu di che religione sei? E l’altro risponde: ma io non sono credente! E l’ebreo: sì, ma non credente di quale religione?

Un non credente di famiglia ebraica è infatti diverso da un non credente di famiglia cristiana o islamica, perché l’ebraismo, più delle altre religioni, è inseparabile da una cultura e da una civiltà.

Infine, è stato acutamente notato dallo scrittore Yehoshua che se, laicamente, si riconosce la piena legittimità per un ebreo di essere agnostico, non credente, non religioso, si dovrebbe riconoscere la possibilità di un ebreo-cristiano o di un ebreo-musulmano. Ma, dice Yehoshua, con tutta la mia fedeltà al principio di laicità non riesco ancora a concepire un ebreo che rinneghi la sua religione per farsi cristiano o musulmano e rimanga nel popolo ebraico ossia venga ancora considerato e si consideri egli stesso un ebreo. La difficoltà che confessa lo scrittore, mi pare che sia universalmente condivisa

Analogamente, non si può ritenere secondario il riferimento dell’ebraismo a una determinata terra e questo non perché dal 1948 c’è lo Stato di Israele o perché dalla seconda metà dell’Ottocento si è sviluppato il movimento sionistico. Questo riferimento è rimasto essenziale, nel corso dei millenni, sia perché la presenza ebraica in Palestina non è mai venuta meno, sia perché a Gerusalemme e alla Giudea hanno continuato a guardare idealmente gli ebrei della diaspora in ogni epoca e in ogni luogo e a qualunque corrente dell’ebraismo appartenessero.

In sostanza, come scrive Piero Stefani (Introduzione all’ebraismo), “i consueti parametri impiegati per definire una cultura, una religione, una identità collettiva o individuale mostrano abbondantemente la corda quando sono più o meno forzosamente piegati ad adattarsi alla realtà ebraica”. E, aggiunge Stefani, quando ci si trova di fronte alla complessità vi è sempre la tentazione di semplificare. Ma nel caso del popolo ebraico le definizioni che semplificano la realtà complessa sono per lo più legate a contrapposizioni. Così, come ora vedremo meglio, l’antigiudaismo prospera quando l’ebraismo è ridotto a una religione, l’antisemitismo quando è rinchiuso dentro una etnia, l’antisionismo contemporaneo fiorisce quando si contesta la legittimità agli ebrei di avere una propria espressione politica e statuale. Se si definisce l’ebraismo, come indirettamente si è fatto sopra, come l’insieme articolato di Torah, popolo e terra di Israele, si può notare – dice sempre Stefani – che le tre forme di ostilità prima richiamate si sono concentrate ciascuna su un singolo elemento, scindendolo dagli altri.

L’antigiudaismo

Se ora, dopo questo necessario excursus alla ricerca di una definizione dell’identità ebraica, torniamo alla parola da cui siamo partiti, notiamo che l’ostilità all’ebreo negli ultimi 2000 anni o giù di lì si è connotata come antigiudaismo, antisemitismo e infine antisionismo, ma non come antiebraismo. Quest’ultima rischia quindi di essere una categoria troppo vasta, troppo generica e persino antistorica. E tuttavia essa ha una sua utilità, proprio per questa accezione vastissima che riguarda anche il piano temporale: può infatti riferirsi – e così la useremo nelle prime lezioni – alle idee e ai pregiudizi ostili e infamanti contro gli ebrei che troviamo nell’antichità precristiana, soprattutto in epoca ellenistica e romana. In questo modo, diventerà possibile sottolineare la netta differenza che c’è fra l’antiebraismo e l’antigiudaismo, che storicamente nasce con il cristianesimo, è una costruzione della chiesa cristiana, ha come bersaglio una particolare corrente del mondo ebraico, ossia il giudaismo rabbinico. SE ci sono tante difficoltà a definire l’ebreo, per contro sappiamo dare una definizione precisa del giudaismo rabbinico. Per giudaismo rabbinico si intende propriamente il sistema religioso ebraico, incentrato su Torah e sinagoga, che si venne configurando dopo il 70 d.C., con il venir meno del Tempio e della religione sacrificale, e raggiunse la sua formulazione classica con la chiusura del Talmud babilonese VI-VII secolo. In senso estensivo si intende la forma assunta dall’ebraismo a partire dall’età tardo-antica e fino ai giorni nostri (anche se non bisognerebbe mai dimenticare che l’ebraismo, e anche il giudaismo rabbinico, è una realtà che è rimasta sempre articolata e plurale al suo interno).

L’antigiudaismo è quindi la violenta ostilità nei confronti degli ebrei mossa da una ideologia religiosa – cristiana prima e poi anche islamica – che colpisce gli ebrei proprio per la loro religione o meglio per il credo religioso che viene loro attribuito (e che spesso non corrisponde affatto alla loro reale fede e prassi). Naturalmente questo non significa che le ragioni dell’ostilità contro gli ebrei siano solo di natura religiosa, perché certamente sono sempre entrati in gioco anche altri fattori – di ordine economico, sociale, politico, culturale, psicologico. Ma la religione resta il fattore decisivo perché, sia per individuare chi sono gli ebrei, sia per giustificare l’ostilità nei loro confronti, nell’antigiudaismo ci si avvale di argomenti espressi in termini religiosi.

L’antisemitismo

Questa caratterizzazione dell’antigiudaismo in base al fattore religioso serve a distinguerlo dall’antisemitismo. Quest’ultimo è fenomeno storicamente molto più recente. Il primo importante ideologo dell’antisemitismo – più precisamente colui che pone le premesse dell’ideologia antisemita –  è Joseph Arthur de Gobineau il quale nel suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane pubblicato nel 1854 sostenne che gli ariani rappresentassero un ramo superiore dell’umanità. Gobineau partiva dal postulato pseudoscientifico dell’esistenza naturale delle razze e della loro fissità e immutabilità. Distingueva una razza bianca, una razza nera, una razza gialla, ritenendo che la prima fosse superiore alle altre, ma si trovava di fronte al dato del “meticciato”, della mescolanza di gruppi razziali diversi, e al fenomeno ebraico, con un popolo che, soprattutto in Europa sembrava avere tutti i tratti somatici della razza bianca. E così assumeva dalla linguistica contemporanea la definizione di “ariano”, che nella linguistica serviva ad individuare il ceppo da cui sarebbero derivate le principali lingue europee, quelle dette anche “indoeuropee”. In tal modo gli ebrei, la cui lingua apparteneva a un’altra famiglia, quella delle lingue semitiche, pur presentando spesso – soprattutto gli askhenazy dell’Europa centrale, settentrionale ed orientale – tratti somatici simili a quelli degli altri “bianchi”, venivano già esclusi dalla razza presunta superiore, quella ariana.

Gobineau ebbe grande successo in Germania e il suo principale “allievo” sarà H.S. Chamberlain, inglese di origine, che opera soprattutto in Germania, dove è il mentore di Hitler.

In Gobineau non troviamo ancora la dottrina antisemita, sebbene il suo testo ne contenga i presupposti ideologici. Il passo successivo e decisivo viene però compiuto solo pochi anni dopo, quando il termine “semita” per indicare gli ebrei – improprio sul piano della linguistica – e di conseguenza l’antisemitismo come avversione su base razziale agli ebrei vengono chiaramente affermati da Wilhelm Marr, in La vittoria degli ebrei sul germanesimo, anno 1879. Marr intende trattare la questione ebraica da un punto di vista non religioso, ma razziale e pseudoscientifico. Il termine, nello stesso tempo, viene fatto risalire alla Bibbia e precisamente ad uno dei figli di Noè, Sem, che nella genealogia di Genesi è il progenitore di Abramo e di Davide. Bisognerebbe però ricordare che Sem nelle genealogie bibliche è progenitore, almeno in linea naturale, anche dell’altro figlio di Abramo, Ismaele, capostipite a sua volta degli arabi, e da Abramo, attraverso Davide, si giunge poi anche a Gesù, nella genealogia matteana. Ma questo viene ignorato, perché è tipico dell’antisemitismo forzare e manipolare gli stessi dati, biblici, storici o scientifici, su cui pretende di fondarsi.

Bisogna ora chiedersi perché in un dato momento storico, dalla vecchia pianta dell’antigiudaismo si generi l’antisemitismo. Il contesto in cui si realizza questo cruciale passaggio è quello del positivismo scientista e del nazionalismo tardo-ottocentesco. Si trattava di trovare un modo non religioso, ma basato su presunte evidenze scientifiche e rispondente alle esigenze del nazionalismo, per definire e colpire gli ebrei. Il positivismo ci mette l’inclinazione al riduzionismo e al dogmatismo scientifico; il nazionalismo, che ormai si definisce su base etnica ed etnico-linguistica e si allontana dall’idea mazziniana di Nazione, individua l’altro e il diverso come nemico e l’altro e il diverso per eccellenza è l’ebreo, la cui alterità di conseguenza deve ora declinarsi sul piano razziale e non più solo o principalmente su quello religioso. Il darwinismo imperante – anche a dispetto delle reali intenzioni di Darwin – spinge infine a costruire un ordine gerarchico presunto naturale tra le razze, al cui vertice si collocano gli ariani e al livello più basso gli ebrei

Inoltre c’era il problema della crescente secolarizzazione degli ebrei soprattutto in Europa occidentale: con il distacco di tanti di loro dalle tradizioni e dalle pratiche religiose diventa necessario riadattare il vecchio antigiudaismo e rifondarlo su basi non religiose. L’antisemitismo, nota Stefani, poteva sorgere solo in una condizione storica in cui l’osservanza religiosa da parte degli ebrei non era più considerata essenziale. E questa condizione si realizza a partire dall’Illuminismo, movimento a cui il mondo ebraico partecipa attivamente, soprattutto in Occidente, con la corrente detta della haskalah.

È chiaro che antigiudaismo e antisemitismo hanno implicazioni e conseguenze profondamente diverse. Nel primo caso, l’ebreo è identificato e colpito in base alla sua religione. Pertanto, l’ebreo che si converte cessa di essere ebreo e non deve essere più discriminato (anche se nella realtà storica, l’ombra del sospetto continuerà a gravare sul marrano, ossia sull’ebreo convertito).

Nell’antisemitismo, invece, la condizione ebraica non è modificabile, è un dato immutabile. L’ebreo che si converte al cristianesimo resta ebreo. Le leggi razziali, prima nella Germania nazista, poi nell’Italia fascista, colpiranno quindi gli ebrei di nascita, a prescindere dal loro credo religioso o politico.

Antisionismo

Bisogna aggiungere, dice ancora Piero Stefani, in conclusione del suo chiarimento terminologico, che abbiamo avuto forme di antisemitismo in Urss e nei paesi del blocco sovietico non sorrette da una ideologia razzista, né religiosa – se non si vuole considerare il marxismo-leninismo sovietico una religione secolarizzata. Stalin e gli altri dirigenti comunisti non parlavano, infatti, di antisemitismo, ma di antisionismo o di anticosmopolitismo.

Aggiungerei che vi sono due dati interessanti in questa storia della discriminazione degli ebrei nei paesi comunisti. Il primo è che –come è chiaro nell’accostamento dei due termini appena citati (antisionismo e anticosmopolitismo) e nella più genuina tradizione antigiudaica e antisemita – agli ebrei si attribuisce una colpa e pure il suo contrario. In questo caso agli ebrei si contestano sia il nazionalismo (sionismo) che il cosmopolitismo. Ma, in fin dei conti, questa accusa apparentemente contraddittoria svela l’antisemitismo latente nell’antisionismo contemporaneo, perché risponde proprio alla ideologia espressa nel modo più lucido nei Protocolli dei Savi di Sion: nel celebre falso, pietra  miliare dell’antisemitismo, gli ebrei sono una razza a sé e contrapposta ad altre razze – il che risponde alla prospettiva del nazionalismo – ma una razza che, grazie anche al fatto che è dispersa o disseminata in tutto il mondo, cospira per impadronirsi del potere globale e usa come suo strumento il cosmopolitismo. Gli ebrei, come si legge ancor oggi in qualche delirante commento sui social, hanno inventato lo Stato nazionale e nello stesso tempo ne sono i distruttori. E proprio sui social il corto circuito di memoria staliniana viene proposto sui canali rosso-bruni – che naturalmente negano con forza di essere antisemiti: gli ebrei sono accusati sia di sionismo, ossia di nazionalismo settario e imperialistico, sia di “globalismo”, di essere parte fondante e nucleo direttivo del “complotto” delle élites globaliste.

Veniamo dunque all’ultimo termine che connota l’avversione contro gli ebrei: antisionismo. Anche in questo caso la contrapposizione nasce dall’isolamento di un singolo fattore della identità ebraica – il legame con la terra di Israele. Anche in questo caso, chi si scaglia contro gli ebrei, con violenza verbale o materiale, nega che ci siano altri fattori a motivare la sua ostilità: chi si definisce antisionista regolarmente nega di essere antisemita o di avversare gli ebrei per la loro religione, così come l’antigiudeo affermava che il problema dell’ebreo era la sua religione e non la razza. Di fatto, e proprio per il peculiare carattere dell’identità ebraica già delineato, questa operazione che pretende di mirare a un solo elemento della identità ebraica suona sempre falsa e dietro o sotto l’elemento preso di mira si scorge l’intreccio inestricabile. Così il linguaggio antisionista e antiisraeliano riprende e rilancia in modo impressionante i tipici stereotipi dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo proprio mentre nega di avere a che fare con quei precedenti.

Chiarito questo, va comunque precisata l’esatta definizione di antisionismo. Il sionismo è il movimento fondato a fine Ottocento da un ebreo ungherese, Theodor Herzl, con l’obiettivo di costituire una “patria ebraica”, uno Stato nazionale ebraico. Il movimento comincia ad affermarsi veramente solo in seguito all’inasprirsi dell’antisemitismo ideologico in Europa e ai pogrom nelle regioni dell’Impero russo. Paradossalmente – ma in realtà il paradosso in questione è tale solo se si ignora questa vicenda storica – in quel momento, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, non c’erano antisionisti tra i non ebrei: l’antisionismo era una corrente ed una reazione essenzialmente interna al mondo ebraico e specificamente dell’ebraismo religioso. Bisogna infatti precisare che il progetto sionista si legava alla cultura ebraica laica e intendeva fondare uno Stato laico (i rabbini dovranno rimanere nelle sinagoghe e non intromettersi nelle questioni politiche e nella legislazione, aveva affermato Herzl). È solo nel periodo del mandato britannico in Palestina e con il crescere della tensione fra la popolazione ebraica, sempre più numerosa, e quella araba, che si profila un antisionismo “dei gentili”, in questa prima fase essenzialmente un antisionismo arabo. Anche con la Costituzione dello Stato di Israele, l’antisionismo resta essenzialmente un fatto del mondo arabo, strettamente intrecciato all’antisemitismo (il Muftì di Gerusalemme, massima autorità arabo-palestinese e zio di Yasser Arafat, negli anni Trenta e durante la guerra, aveva condiviso l’ideologia antisemita nazista e aveva avuto stretti rapporti con Hitler; la stampa e le piazze dell’Egitto di Nasser diventano negli anni Cinquanta e Sessanta il nuovo principale focolaio di diffusione di idee antisemite). È solo dal 1967 e con la Guerra dei Sei Giorni che l’antisionismo si diffonde largamente nel mondo occidentale, specie nella sinistra, sovrapponendosi all’antiamericanismo. Ma questo passaggio l’ho già dettagliatamente analizzato in un video al quale, in conclusione, rimando.

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