Quale soluzione per il conflitto israelo-palestinese? Da “Due popoli, due Stati” a “Uno Stato per due popoli”
Mentre riesplode nel modo più tragico il conflitto israelo-palestinese – con un attacco di Hamas che andrà considerato tra i peggiori crimini contro l’umanità del XXI secolo – si registra da anni il “coma profondo” delle trattative diplomatiche e delle ipotesi di soluzione della questione. Al massimo si ripete, sempre più stancamente e scetticamente, la formula retorica dei “Due Stati, per due popoli”.
In questo articolo, vorrei provare brevemente a dimostrare
1) che la soluzione suddetta, se in un ormai lontano passato ha avuto qualche plausibilità, è da tempo naufragata ed è probabilmente irrealizzabile.
2) che se per ventura si riuscisse ad attuarla, essa non farebbe altro che aggravare il conflitto e agirebbe come un ulteriore fattore di guerra e non già di pace.
3) che l’unico sbocco praticabile, sebbene molto difficile, è invece “Uno Stato, per due popoli”. Da libertario, auspicherei, in realtà, una soluzione che rispondesse a una diversa formula – “una regione, più popoli e nessuno Stato” – ma non credo che nel breve arco della mia vita terrena possano maturare le condizioni per questo suggestivo scenario.
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1. Come è noto fu la risoluzione 181 dell’ONU che nel 1947 stabilì un assetto del tipo “Due popoli, due Stati”. Perché la risoluzione non fu attuata? Qui dobbiamo incominciare a dire un po’ di verità storiche, rimosse o manipolate dalla vulgata dominante in occidente, e soprattutto nella sinistra (ma anche nella estrema destra), che è sbilanciata in senso filopalestinese. Innanzitutto la risoluzione fu pienamente accettata da Israele, ma rifiutata dai paesi arabi. Questi ultimi, non si limitarono alla protesta verbale e al voto contrario, ma attaccarono subito gli insediamenti ebraici e, quando Ben Gurion, dichiarò la costituzione dello Stato di Israele – non illegalmente, non in modo unilaterale, ma sulla base della risoluzione 181 – dichiararono guerra ad Israele (primo conflitto arabo-israeliano 1948-49).
Israele prevalse militarmente. Alla fine della guerra, è vero che corresse i confini stabiliti dall’ONU – peraltro francamente implausibili perché non erano difendibili – a proprio favore, ma non occupò la Cisgiordania, né Gerusalemme Est (che comprende il centro storico e i luoghi santi delle tre religioni). Pertanto, la soluzione dei due Stati poteva ancora realizzarsi. Chi la impedì fu il Regno hascemita di Giordania, che si annesse i territori suddetti. Gli hascemiti, per la cronaca, erano la stirpe araba a cui i Turchi – nel lungo periodo della dominazione ottomana – avevano affidato la custodia dei luoghi santi della Penisola arabica e che aveva poi ottenuto dai britannici le corone del Regno di Iraq (poi perduta per il colpo di Stato del partito Baath) e appunto del Regno di Giordania. La nascita di uno Stato arabo indipendente in Palestina fu quindi impedita già nel 1949 da un sovrano arabo.
Nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni, Israele occupò Cisgiordania e Gerusalemme Est – nonché la Striscia di Gaza e il Sinai (poi restituito alla sovranità egiziana). La soluzione dei due Stati fu però ancora possibile fino al 1970. E per due motivi. Il primo è che Israele occupò sì quei territori, ma senza annetterli, e l’ONU – sebbene la risoluzione 242 sia molto più ambigua di come viene comunemente e sommariamente riassunta e citata – non riconobbe la legittimità dell’occupazione. La Cisgiordania è stata in effetti al centro delle trattative israelo-palestinesi, quando si sono avviate, e con gli accordi di Oslo è passata parzialmente sotto una amministrazione palestinese. Ma, anche se il cammino incominciato ad Oslo riprendesse e facesse progressi decisivi – il che oggi è fuori dalla realtà – uno Stato Palestinese ridotto alla Cisgiordania non avrebbe serie possibilità di sussistenza.
E qui veniamo al secondo punto. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, la gran parte dei profughi palestinesi della Cisgiordania passò il confine e si rifugiò nel Regno di Giordania. Questo Stato aveva già una metà circa dei suoi cittadini di origine palestinese (l’altra componente è quella beduina, che esprime anche la casa regnante). L’unica ipotesi plausibile di Stato arabo-palestinese era quindi una entità giordano-palestinese. Ma questo avrebbe significato rimettere in discussione gli equilibri etnici interni e la stessa legittimità della dinastia hascemita.
Peraltro, l’ipotesi naufragò definitivamente con l’azione famigerata denominata “Settembre Nero”. Il re Hussein di Giordania non aveva affatto integrato nel suo paese i profughi palestinesi, ma li aveva lasciati ammassati nei campi profughi. Dai campi profughi partivano le azioni di guerriglia dei fedayn dell’OLP, con le scontate rappresaglie israeliane. Stanco dello stato di cose, Hussein ordinò di smantellare con la forza i campi profughi e di espellere i palestinesi dal paese (i più emigrarono in Libano, destabilizzando definitivamente la precaria situazione di quel paese che, pochi anni dopo, precipitò nella guerra civile).
Con “Settembre Nero” si chiude definitivamente, a mio avviso, la soluzione “Due popoli, Due Stati”, evocata solo strumentalmente e retoricamente nei successivi negoziati.
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2. Ma ammettiamo pure che la soluzione dei due Stati sia ancora praticabile. A che cosa porterebbe? Alla pace? Bisogna davvero ignorare tutti i dati reali per immaginare una cosa del genere. Intanto un embrione di Stato palestinese, un territorio lasciato all’autogoverno palestinese c’è già ed è proprio Gaza. Ciò vale a dire che l’unico luogo che è stato lasciato all’autodeterminazione palestinese è stato subito egemonizzato dall’integralismo islamico di Hamas (anche con una sanguinosa guerra civile contro Fatah) e costituisce da almeno 20 anni il principale focolaio di guerra nella regione.
Se questo embrione di Stato si ingrandisse con la Cisgiordania o con parti di essa, cambierebbe forse la situazione? O piuttosto sarebbe di nuovo pienamente coinvolta anche la Cisgiordania nella guerra per la distruzione di Israele – che è l’obiettivo dell’integralismo islamico?
Il nodo che viene costantemente eluso dai visionari – ma spesso si tratta di pura malafede – dei “due popoli, due Stati” è l’egemonia conquistata da Hamas e Jihad islamica nel mondo palestinese, con il parallelo discredito dell’OLP. Ed il fatto che i fondamentalisti non vogliono affatto due Stati, ma la distruzione di Israele, e sono sostenuti non più dai regimi arabi radicali – che in sostanza non esistono più – ma, strumentalmente, per le loro ambizioni egemoniche ed espansionistiche, da Iran e Turchia, paesi islamici, ma non arabi (e l’Iran, per giunta, sciita).
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3. Esiste una via d’uscita, magari difficile ma non del tutto irreale? A mio avviso, sì ed è la soluzione uno Stato per due popoli. Per concepirla, occorre però abbandonare due feticci: il primo è quello dello Stato etnico, feticcio purtroppo oggi rimontante nel “sovranismo” delle destre o delle correnti “rosso-brune”. Il secondo è il feticcio democratico, quello che i critici liberali novecenteschi della degenerazione della democrazia, chiamavano “iperdemocrazia” o “democrazia assoluta”. A queste condizioni, la soluzione è quantomeno ipotizzabile e lo Stato capace di realizzare la convivenza pacifica dei due popoli è solo Israele stesso.
A chi restasse stupito o perplesso, propongo di riflettere meglio su alcuni dati oggettivi. Israele, sebbene venga spesso definito “Stato ebraico”, tale non è (ricordo che Israele non ha neanche una Costituzione e ha seguito in questo il modello britannico). In primo luogo, Israele non è uno Stato religioso o confessionale, perché è una creazione di un movimento laico e aconfessionale come il sionismo. I gruppi religiosi ebraici ortodossi e ultraortodossi sono da sempre critici nei confronti del sionismo e in certi casi neanche riconoscono Israele come entità statale e si rifiutano anche di prestare servizio militare. In secondo luogo, il 21% della popolazione israeliana è di etnia araba e di religione islamica. Israele è quindi già uno Stato che comprende due popoli (i quali hanno gli stessi diritti di cittadinanza). Si può aggiungere che la componente ebraica maggioritaria è estremamente articolata al suo interno, rispetto alla posizione nei confronti della religione, alla provenienza geografica, alle tradizioni culturali e ai costumi. Il mondo ebraico continua ad essere plurale come è stato per millenni e lo Stato gestisce già, non senza tensioni, questa pluralità.
La soluzione che immagino prospetta quindi l’annessione ad Israele dei Territori Palestinesi. Capisco che questo farà saltare sulla sedia molti, ma se i molti sgombrassero le loro teste da equivoci e pregiudizi, capirebbero che si tratta non solo dell’unica situazione fattibile, ma anche della migliore prospettiva per i palestinesi. I quali, in buona parte, o sono già cittadini israeliani – come si è già osservato – o hanno permessi di lavoro in Israele. L’”annessione” dovrebbe prevedere naturalmente per i nuovi cittadini gli stessi diritti degli altri cittadini, sia arabi che ebrei.
Ci sarebbero delle ovvie resistenze.
Sul fronte palestinese, questo scenario sconterebbe la scontata opposizione dei fondamentalisti, ma anche quella dell’ANP. Riguardo ai primi, dato che sono il principale ostacolo a qualunque soluzione, perché perseguono quello che non si realizzerà mai, ossia la distruzione di Israele, essi vanno semplicemente neutralizzati. In che modo? Minando il consenso di cui godono nel popolo palestinese. Un consenso che non dipende solo dal fanatismo religioso, ma anche e soprattutto da fattori più “concreti”, ossia dalla rete assistenziale che Hamas da tempo ha messo in piedi e che è fondamentale per una popolazione estremamente misera. Ma Israele può provvedere molto meglio di Hamas ai bisogni materiali della popolazione palestinese e in buona parte già lo fa, fornendo acqua, energia, viveri, lavoro e assistenza sanitaria.
Quanto all’ANP, la sua opposizione dipenderebbe essenzialmente dal fatto che i suoi dirigenti hanno lucrato sullo status quo – da cui ricavano privilegi, che, essendo loro garantiti da Israele, in molti casi non potrebbero mantenere in uno Stato indipendente palestinese. Pertanto, sono contrari a qualsiasi mutamento, nonostante i proclami retorici. Anche l’ANP è quindi un ostacolo a qualunque soluzione definitiva e pacifica. I dirigenti palestinesi, d’altra parte, potrebbero conquistarsi comunque il loro spazio qualora i Territori palestinesi divenissero parte dello Stato di Israele, ma certamente dovrebbero rimettersi in discussione e rivedere la prassi di corruzione largamente diffusa.
Infine, l’opposizione a “un solo Stato per due popoli” verrebbe anche da molti israeliani e da varie componenti della società e della politica israeliane. Ma potrebbe essere superata se si fugasse il principale e legittimo timore, che è quello – nel medio termine – di una prevalenza demografica arabo-palestinese con la conseguente paventata sua egemonia. Questo rischio non esisterebbe se ci si liberasse, come dicevo, del feticcio democratico, non già in direzione di un irrigidimento autoritario, ma nella direzione precisamente opposta: quella di un equilibrio liberale all’interno delle istituzioni fra le diverse componenti etniche e religiose, garantito da una Carta Costituzionale e da un preciso Ordinamento.
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Una sfida difficile, ma con l’obiettivo entusiasmante di realizzare come minimo una convivenza pacifica e come massimo una società non multiculturale, ma interculturale. Una società dove rinascesse il reale confronto, lo scambio, l’interazione fra le diverse culture, religioni e tradizioni, cose ormai dimenticate, sepolte dalle opposte funeste retoriche del multiculti politically correct e del sovranismo etnico.
E’ il sogno di una Terra di Israele e di Palestina – possibilmente con tutta l’area mediorientale – che invece di essere ciò che è oggi, focolaio di guerra e luogo dei crimini più atroci, torni a rappresentare ciò che è stata nei momenti più alti della sua storia, crocevia e fucina di popoli, lingue, culture e religioni, ove polemos si accenda non nella forma della guerra combattuta con le armi, per la soppressione o lo sterminio del nemico, ma secondo l’idea che ne aveva Eraclito di Efeso (uno dei grandi figli della Grecia antica, certo, ma anche di quello che chiamiamo Medio Oriente, vista la collocazione geografica della sua città): polemos, padre di tutte le cose, inteso come il conflitto intrinseco al Logos, la “discorde armonia”, l’unità dei contrari, senza cui non c’è vera pace, perché non c’è vera vita.
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