
Le dichiarazioni di Giuliano Amato sulla strage di Ustica sono state accolte come una clamorosa rivelazione. Se ciò è accaduto è solo perché in questo paese si è preteso di delegare ai magistrati non solo il giudizio politico su vicende e personaggi, ma persino la ricostruzione storica (stiamo parlando di un fatto accaduto 43 anni fa). Se la “verità giudiziaria” su Ustica non è stata ancora raggiunta e forse non sarà mai raggiunta, e se quindi suscitano tanto clamore le affermazioni di Amato in una opinione pubblica che aspetta che la “verità” emerga nei tribunali, da tempo lo storico, pur senza avere prove documentali decisive e incontrovertibili dell’accaduto, è in grado di formulare una ipotesi molto plausibile, inserendo la strage nel contesto politico internazionale e italiano di quegli anni. La ricostruzione di quel contesto consente di dire che le “rivelazioni di Amato” – il DC9 sarebbe stato abbattuto da un missile francese nell’ambito di una operazione – quasi una battaglia aerea – volta a colpire un aereo libico che doveva trasportare Gheddafi – non fanno altro che svelare ciò che dovrebbe essere noto da tempo. L’unico elemento nuovo che Amato ha apportato – sarebbe stato Craxi a salvare il leader libico – è invece poco credibile, come mostrerò, proprio alla luce del contesto in cui si colloca la strage. Come ha chiarito il figlio del leader socialista, Amato ha retrodatato al 1980 qualcosa che forse accadde effettivamente, ma solo nel 1986: fu allora, sostiene Bobo Craxi, che il padre, divenuto ormai Presidente del Consiglio, avvertì Gheddafi del bombardamento americano, consentendogli di mettersi in salvo. Più plausibile appare invece la correzione alle dichiarazioni di Amato che è stata operata prima da Zanda – che fu stretto collaboratore di Cossiga (e Cossiga era il Presidente del Consiglio al tempo della strage di Ustica) – e poi da Sergio Vento, ex ambasciatore e consigliere dello stesso Amato a Palazzo Chigi: furono i servizi segreti italiani a mettere Gheddafi sull’avviso e a salvarlo.
Il “lodo Moro”
Ma vediamo dunque il contesto storico in cui si colloca la tragedia del DC9. Nei mesi precedenti si era consumata la fine di quel “patto” del governo e dei servizi segreti italiani con i terroristi palestinesi, strettamente legati a Gheddafi, che è noto come “lodo Moro”. Ho già parlato diffusamente della storia del “lodo Moro, soprattutto in riferimento all’altra strage di quell’estate, in un articolo pubblicato tempo fa su questo stesso blog (https://angelomicheleimbriani.com/?p=363). L’articolo si muoveva sulla scorta del libro di Valerio Cutolilli e Rosario Priore (un magistrato, che, come è noto, ha indagato proprio su Ustica) I segreti di Bologna, edito da Chiarelettere. Qui mi limito a riassumerne i termini essenziali.
Sorvolando sui fatti antecedenti e sui rapporti già intercorsi fra governo, servizi segreti e terrorismo palestinese, il momento decisivo è quello che segue la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973. Quel giorno, un gruppo palestinese dissidente e vicino a Gheddafi, per sabotare un precedente accordo fra il governo italiano e l’OLP guidato da Arafat, attaccò un boeing della Pan Am, provocando 34 morti (tra cui sei italiani). Subito dopo la strage, tre fedayn, che erano stati arrestati tempo prima ad Ostia, per un traffico di missili, vennero rilasciati e consegnati a Gheddafi, nel massimo riserbo. Soprattutto, si strinse un accordo complessivo che sarebbe durato per anni e che avrebbe posto fine effettivamente alle azioni del terrorismo palestinese in Italia. L’accordo prevedeva che l’Italia potesse essere utilizzata come base logistica per il traffico di armi, per il movimento di uomini e per le azioni terroristiche dei palestinesi in altri paesi. Quando qualche terrorista fosse stato “malauguratamente” fermato dalle forze di polizia si sarebbero usati gli strumenti legali, come la legge Valpreda o l’istituto della grazia, per lasciarlo andare.
Questo patto troverà applicazione in diversi casi, ma, almeno fino al novembre del 1979 e a un episodio al quale accennerò, nulla trapelerà: il lodo Moro ufficialmente non esisteva.
Bisogna dire, innanzitutto, che l’accordo si inseriva in una linea di politica estera filoaraba e attenta ai rapporti con i regimi affacciati sul Mediterraneo, che era da tempo ben radicata nella politica italiana, era stata delineata da Mattei, La Pira, Gronchi, era da sempre dominante nella sinistra democristiana e, dopo la guerra dei Sei Giorni, aveva coinvolto anche il PCI e il PSI. Nel Sid – così si chiamava negli anni settanta il servizio segreto – il “partito arabo” faceva capo a Miceli, uomo di fiducia di Moro. Questa corrente si era ulteriormente rafforzato proprio dopo lo choc petrolifero dell’autunno 1973 e con la crescente dipendenza italiana dal petrolio libico e dal gas algerino. In sostanza, l’Italia di quegli anni, lungi dall’essere quella “colonia americana” di cui parla la “controstoria” attualmente così diffusa sui social (e che in realtà è una pseudostoria o un’antistoria), si permetteva una larga e spregiudicata autonomia, rispetto agli indirizzi politici dell’Alleanza Atlantica.
La nemesi del “lodo Moro” e le BR
Il problema è che il “lodo Moro” aveva risvolti e conseguenze francamente inammissibili e alla fine agì come una nemesi sullo stesso statista democristiano.
Ma prima di accennare a questo, chiariamo quale fu la parte di Moro nell’accordo con i palestinesi. Il “lodo Moro” potrebbe anche chiamarsi “lodo Giovannone”, se costui non fosse uno dei tanti uomini che contribuiscono a fare la storia, ma dietro le quinte, restando nell’oscurità. Sto parlando del colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei servizi segreti a Beirut e vero tessitore della trama e poi dell’accordo conosciuto come “lodo Moro”. Dal 1972 e per quasi dieci anni, Giovannone fu il referente di una “diplomazia parallela e segreta” in Medio Oriente, il che gli valse il soprannome di “Stefano d’Arabia”. Era l’anello di contatto fra servizi segreti e politica ed era l’uomo di fiducia di Aldo Moro. Giovannone rispondeva da un lato a Moro e dall’altro direttamente al capo del Sid, Vito Miceli, scavalcando, sia nel rapporto politico che in quello spionistico, qualunque altro soggetto, compreso l’ambasciatore italiano in Libano.
Il problema è che, se il “patto” scongiurò il verificarsi di nuove azioni terroristiche palestinesi sul suolo italiano fino alla fine degli anni Settanta, contribuì però anche a rafforzare il terrorismo italiano, innanzitutto quello delle Brigate Rosse, che avevano stretti rapporti con i gruppi palestinesi e in particolar modo con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), a sua volta strettamente collegato alla Libia di Gheddafi, all’URSS e ad alcuni paesi del blocco sovietico, come la Cecoslovacchia. Tra BR e FPLP ci fu una sinergia organizzativa e logistica, che ovviamente comprendeva anche il traffico di armi. Alla fine, Moro fu così vittima anche del “lodo Moro” e dal carcere delle BR invocò l’intervento di Giovannone perché sollecitasse i palestinesi del FPLP a intraprendere un’azione di mediazione con i loro amici brigatisti. Secondo Oreste Scalzone, leader dell’Autonomia Operaia, ci sarebbe stato effettivamente un intervento palestinese, ma si sarebbe arenato dietro il fermo rifiuto delle BR stesse.
Il nuovo scenario politico e la fine del “lodo Moro”
Lo scenario politico cambia, tuttavia, proprio dopo la morte di Moro, e questo mutamento segna anche la fine del patto che portava il suo nome. Un episodio chiave è quello di Ortona, dove, nel novembre del 1979, viene casualmente scoperto un traffico di missili di fabbricazione sovietica e si risale a Saleh, uno “studente” palestinese a Bologna, che in realtà è un uomo di punta del FPLP e nello stesso tempo è in contatto con il colonnello Giovannone a Beirut. Dopo l’arresto di Saleh, i palestinesi si muovono come di consueto, senza percepire il mutamento del clima. Il 12 gennaio 1980, visto che la detenzione del loro uomo si prolunga e i missili non vengono restituiti, Abu Sharif, dirigente del FPLP e “addetto stampa” in Italia del gruppo, rilascia un’intervista a “Paese sera”, nella quale ricorda o rivela che da anni il territorio italiano viene usato per il trasporto di armi, chiede la restituzione delle stesse e minaccia rappresaglie in caso contrario. Riceverà, però, la risposta più autorevole possibile: lo stesso giorno una nota ufficiale della Presidenza del Consiglio (ossia di Cossiga) nega qualsiasi accordo fra l’Italia e il terrorismo palestinese per il trasporto di armi, afferma addirittura che l’Italia non avrebbe alcun rapporto con il FPLP e ipotizza che i missili di Ortona stessero entrando in Italia, piuttosto che lasciare il territorio nazionale, il che aggraverebbe la posizione di Saleh. Il lodo Moro viene così sconfessato agli occhi di chi ne era partecipe o ne era al corrente, mentre a tutti gli altri si dichiara che non è mai esistito. Dieci giorni dopo gli imputati di Ortona vengono condannati. Il vecchio capo del Sid, Vito Miceli, esce allora allo scoperto, con una intervista all’Espresso, nella quale autorizza il giornalista a porre tra virgolette l’esistenza dell’accordo con i fedayn per scongiurare il rischio di attentati. Il suo tentativo non serve a nulla, se non a confermare l’esistenza del patto: Cossiga è irremovibile.
Che cosa era accaduto? Perché veniva sconfessato quell’accordo che aveva retto per diversi anni? Il lodo Moro va in crisi per il mutare dello scenario internazionale che si verifica nel 1979 e per i riflessi di questo cambiamento sulla scena politica italiana. Negli anni precedenti, gli USA – con Amministrazioni indebolite dal Vietnam e dal Watergate e alle prese con l’instabilità economica e monetaria che subentra ai “trenta gloriosi anni” del boom del dopoguerra – hanno lasciato all’Italia inusitati margini di manovra nello scacchiere mediterraneo. Alla fine del decennio, tuttavia, gli USA e la Nato tornano attivamente in campo, intesi a contrastare e neutralizzare la superiorità strategica militare dell’URSS in Europa e la sua crescente influenza politica in Medio Oriente. L’Italia è chiamata a un brusco cambio di rotta: la questione su cui si gioca la partita della superiorità strategica in Europa è quella degli euromissili, che dovranno essere dislocati proprio in Italia, e l’uomo che deve realizzare la svolta è Francesco Cossiga, tornato al governo come primo ministro dopo la momentanea crisi della sua carriera politica conseguente all’uccisione di Moro. Nel mirino degli americani non c’è solo l’URSS, ma ci sono soprattutto i suoi alleati arabi, a cominciare da Gheddafi che si è pericolosamente avvicinato a Mosca e che ovviamente continua a sostenere i gruppi armati palestinesi, specie quelli più radicali come il FPLP, a sua volta finanziato e armato dai sovietici. Questo contesto internazionale pone le premesse per la fine del lodo Moro; i fatti di Ortona, richiamati all’inizio, acquistano così una portata cruciale, perché da un lato rivelano l’esistenza del patto, dall’altro ne segnano la fine.
Tuttavia, il passaggio non è né semplice, né, tantomeno, indolore e provoca subito una crisi e uno scontro politico interno in Italia.
Cossiga, prima di riportare l’Italia saldamente nel campo occidentale e filoamericano, deve affrontare una battaglia politica in occasione del congresso del suo partito. La sua linea politica è contestata all’interno della DC, sia sul piano internazionale che su quello delle alleanze nazionali, da uno schieramento che comprende sia Andreotti che la sinistra di De Mita e Zaccagnini. Questo schieramento vuole il proseguimento della politica filoaraba e, sul piano interno, la ripresa dell’intesa con il PCI, a scapito del PSI di Craxi, che invece Cossiga considera alleato privilegiato. Con Cossiga si schierano invece sia Forlani che Donat-Cattin, le cui mozioni convergono su un “preambolo” che contiene una conventio ad excludendum dei comunisti e allude quindi anche al riallineamento internazionale. L’adesione al preambolo dei dorotei risulta decisiva: Zaccagnini è costretto a dimettersi, Piccoli e Forlani diventano segretario e presidente del partito e Cossiga può formare un secondo governo, più forte del primo. Parallelamente anche Craxi può così conservare la segreteria e rafforzare la sua linea politica.
Nel quadro appena delineato, non è quindi credibile un intervento di Craxi per salvare Gheddafi, nella notte della strage di Ustica. Ben diversa sarà invece la situazione qualche anno dopo, con Craxi a Palazzo Chigi, e ormai padrone del partito, e Andreotti suo Ministro degli Esteri. Retrodatare al 1980 la situazione del 1986 (e il cosiddetto “CAF”, che nel 1980 non esisteva ancora) è l’errore di Amato: dovuto a scarsa memoria o ad altro?
L’”incidente” di Ustica
Se però il “lodo Moro” era finito per il secondo governo Cossiga, un governo decisamente “atlantista”, nato nell’aprile del 1980 e formato da DC, PSI e PRI, restavano settori politici e dei servizi segreti che erano rimasti legati a quella politica. D’altra parte, c’era da mettere in conto la prevedibile reazione palestinese: Giovannone da Beirut lanciava messaggi allarmati: avvertiva che il FPLP aveva intenzione di compiere un attentato dimostrativo che sarebbe rimasto senza rivendicazione, ma che doveva giungere al governo italiano come un inequivocabile segnale.
In questa situazione, è plausibile che, a dispetto della svolta politica segnata dal governo Cossiga, gli aerei libici continuassero ad utilizzare i “corridoi segreti” che l’Italia aveva loro lasciato negli anni precedenti (si trattava, a quanto pare, di nascondersi sotto i jet di linea); è plausibile che però gli alleati occidentali, non solo gli Usa, ma la Francia (già fortemente interessata alla Libia), conoscessero ormai il “segreto” o meglio che non fossero più disposti a tollerarlo; ed è plausibile che qualcuno, dai servizi segreti italiani, all’ultimo momento abbia “consigliato” a Gheddafi di non recarsi a Varsavia, come aveva previsto di fare, sfruttando uno di questi “corridoi”. Il relitto di un caccia libico, come è noto, fu trovato qualche tempo dopo sui monti della Sila. La spiegazione più plausibile della tragedia di Ustica è che quella notte si volesse abbattere l’aereo che avrebbe dovuto trasportare il leader libico e che il DC9 sia stato fatalmente colpito in un’azione volta a neutralizzare i due caccia libici che avrebbero dovuto appunto scortare l’aereo di Gheddafi.
Nei servizi segreti, l’allarme per una ritorsione palestinese – o libico-palestinese – cresce quindi in modo esponenziale, nell’estate del 1980, dopo la strage di Ustica. L’11 luglio è il capo della polizia in persona ad avvertire del pericolo, come mostra un documento pubblicato nel libro di Priore e Cutonilli. Una nota del Sismi rivela poi che il servizio segreto si aspetta un’azione imminente del FPLP, mentre Silvio Di Napoli, un dirigente del Sismi stesso, rivelerà al giudice Mastelloni di essere venuto a conoscenza a suo tempo di un incontro fra il FPLP e Carlos per dare attuazione alla rappresaglia contro l’Italia. E questo ci porta all’altra terribile strage, quella di Bologna, e a quella “pista palestinese” che è stata sempre negata e mai veramente indagata. Poche settimane prima dell’intervento di Amato, la vicenda di Bologna era stata riaperta dalle dichiarazioni di Marcello De Angelis, subito silenziato e accusato di “revisionismo storico”. Perché nel caso di quest’altra strage, una “verità giudiziaria”, peraltro tutt’altro che priva di ombre, è diventata anche “verità storica”, non per gli storici ma per i politici e i vertici istituzionali, e la strage deve essere archiviata come “strage neofascista”. Chissà se c’è un qualche rapporto fra le dichiarazioni di De Angelis e quelle di Amato. Per capirlo bisognerebbe entrare nella raffinatissima mente del “Dottor Sottile”, decifrare i “messaggi” che ha inteso lanciare con le sue dichiarazioni e individuare i destinatari di questi messaggi.
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