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Bibbia e teologia

IL MESSAGGIO DI SALVEZZA DEL VANGELO DI TOMMASO

Il Vangelo del “gemello” di Gesù

Quale è il messaggio di salvezza, qual è il kerygma del Vangelo di Tommaso, il più significativo dei vangeli apocrifi? Questo messaggio pare incentrato intorno al nome stesso del personaggio a cui lo scritto è attribuito: Tommaso significa “gemello” (dal siriaco e dall’aramaico); Tommaso è il discepolo che riesce a diventare “gemello” di Gesù e che si propone come modello agli altri discepoli, parimenti invitati a diventare “gemelli” del Salvatore. Ma in che consiste questo rapporto di gemellarità? Come lo si raggiunge?

Tommaso, “gemello” di Gesù

Dobbiamo quindi incominciare dalla questione dell’autore, o per meglio dire dell’attribuzione del Vangelo a Tommaso (“gemello”) nella subscriptio del manoscritto copto. Che tale attribuzione sia pseudoepigrafica, alla luce di quanto abbiamo già detto negli articoli precedenti (, è pressoché certo. Ciò significa che il Vangelo, attribuito all’apostolo Tommaso (che, come sappiamo, ha un ruolo importante nel capitolo 20 del Vangelo di Giovanni) non è stato scritto realmente da lui. Al limite, il primo nucleo del Vangelo potrebbe anche risalire a una comunità adunata intorno a Tommaso o che comunque si richiamava alla sua testimonianza, ma non abbiamo elementi per andare al di là di una congettura e d’altra parte, come si è visto, il testo ha una lunga storia redazionale che si conclude solo verso la metà del II secolo, secondo l’opinione più accreditata oggi.

Come viene presentato Tommaso, nell’incipit del testo?

Come si diceva, all’inizio del Vangelo si dice che esso contiene le “parole segrete” che “Gesù il Vivente” ha proferito e che Tommaso ha scritto. Nel testo copto di Nag Hammadi il nome del personaggio che riceve, scrive e trasmette i detti di Gesù è ridondante: “Didimo Giuda Tommaso”. Didimo e Tommaso significano entrambi “gemello”, rispettivamente in greco (dìdymos) e, come si diceva, in siriaco o aramaico (ta’ma’ e te’ oma). Giuda significa invece giudeo, ma qui dovrebbe essere il nome proprio. Prima di cercare di comprendere in che senso Tommaso sarebbe “gemello” (di Gesù), bisogna precisare che questo triplice appellativo è sicuramente una variante tardiva del testo originario. Nella versione greca di uno dei tre papiri di Ossirinco, che certamente è più vicina all’originale rispetto al manoscritto di Nag Hammadi, si trova lo stesso nome di “Tommaso” preceduto da una breve lacuna che non può contenere entrambi gli appellativi della versione copta (Giuda e Didimo). La lacuna viene di solito integrata così: “[Giuda detto anche] Tommaso”. Probabilmente nelle tradizioni tardive si era persa la consapevolezza che “Didimo” e “Tommaso” significassero entrambi “gemello” e non fossero nomi propri. Il nome originario potrebbe dunque essere “Giuda detto anche Tommaso”, ossia “Giuda, il gemello”. Nei vangeli canonici Tommaso è però già trattato come nome proprio e quello che dovrebbe essere il nome proprio, Giuda, non è neanche citato. In altri apocrifi – quelli della tradizione siriaca, come gli Atti di Tommaso e Il libro dell’atleta Tommaso – si parla invece di un “Giuda Tommaso”. E così pure il personaggio è appellato da Eusebio di Cesarea, quando narra delle origini del cristianesimo ad Edessa (la città dove si stabilì probabilmente la comunità che seguiva la tradizione tommasea). Non siamo certi, peraltro, che questo Giuda detto Tommaso, ossia Giuda “gemello” di Gesù (da non confondere con gli altri due apostoli che si chiamano Giuda) sia lo stesso Tommaso che compare negli elenchi dei Dodici dei sinottici e nel ventesimo capitolo del Quarto Vangelo. Sta di fatto che le due figure – se di due figure diverse si trattasse – vengono identificate nella tradizione siriaca e quindi nel nostro testo. Ed è questo ciò che conta, perché l’intestazione di questo Vangelo ha evidentemente un valore teologico e non storico-biografico. E un significato teologico, e non di legame di sangue, ha la qualifica che viene data a Tommaso di “gemello” di Gesù – non solo in questo testo, ma in tutti quelli della tradizione siriaca. 

Per comprendere la “gemellarità” spirituale di Tommaso con Gesù, il loghion chiave è il numero 13:

«Gesù disse ai suoi discepoli: Fate un confronto con me e ditemi a chi sono simile-. Gli disse Simone Pietro: – Tu sei simile ad un angelo giusto. Gli disse Matteo: – Tu sei simile a un filosofo saggio. Gli disse Tommaso: – Maestro, la mia bocca non potrà assolutamente sopportare che io dica (meno letteralmente: non è assolutamente in grado di dire) a chi tu sei simile.
Gesù disse: – Io non sono più tuo maestro, perché tu hai bevuto e ti sei inebriato alla copiosa sorgente che io ho fatto scaturire. Poi lo prese in disparte e gli disse tre parole. Allora, quando Tommaso tornò dai suoi compagni, essi gli domandarono: – Che cosa ti ha detto Gesù? – Rispose loro Tommaso: – Se vi dico una sola delle parole che egli mi ha detto, voi prenderete delle pietre e le scaglierete, contro di me e un fuoco uscirà dalle pietre e vi brucerà
».

Prima di esaminare la questione centrale del rapporto tra Tommaso e Gesù che questo loghion evidenzia, soffermiamoci un attimo sul rapporto fra Tommaso e gli altri discepoli. È chiaro già dall’incipit del Vangelo che Tommaso è il discepolo assolutamente privilegiato (è lui che riceve e deve scrivere le parole segrete di Gesù). Nel VT non vi è neanche la tradizione dei Dodici apostoli. Come si è visto vengono qui citati solo Matteo e Simon Pietro, ma per sottolineare che essi danno risposte sbagliate. Non compaiono altri nomi di apostoli, negli altri detti. D’altra parte, il Vangelo di Tommaso cita figure che non fanno parte dei Dodici, in primo luogo Giacomo, fratello di Gesù, a cui assegna un ruolo preminente: nel loghion 12, Gesù, rispondendo ai discepoli che gli chiedono chi dovrà “primeggiare” su di loro quando Egli sarà andato via, li affida a “Giacomo il giusto” (Giacomo, fratello di Gesù, è spesso così definito, per distinguerlo dall’apostolo, figlio di Zebedeo, detto anche Giacomo il Maggiore). Il testo menziona anche due discepole, Salome e Maria Maddalena, quest’ultima importante in alcuni testi gnostici, essenzialmente come figura simbolica.

Soffermiamoci ora meglio sul loghion 13 per comprendere questo rapporto “gemellare” fra Gesù e Tommaso. Tommaso, in contrasto con Pietro e Matteo, dice che la sua bocca non è in grado di assimilare Gesù a nessun altro. È la risposta giusta evidentemente, perché Gesù replica, dicendo di non essere più suo maestro. In che senso? Tommaso non è più un discepolo, perché è divenuto simile a Gesù, perché ha bevuto e si è inebriato dalla fonte che emana da Gesù stesso. Un altro loghion, il 108, pur non nominando Tommaso, specifica e chiarisce il loghion 13 e il rapporto fra Gesù e Tommaso:

«Gesù disse: – Colui che berrà dalla mia bocca diventerà come me, io stesso diventerò come lui, e le cose nascoste gli saranno rivelate».

Tommaso ha fatto questo ed è dunque divenuto il discepolo perfetto, simile a Gesù; è questo il gemellaggio spirituale fra i due: una unione mistica.

Come opportunamente nota Andrea Annese (“Il Vangelo di Tommaso. Introduzione storico-critica”), Tommaso è anche il modello per tutti gli altri discepoli, che vengono invitati a porsi ad una sequela di Gesù che consiste in una ascesa spirituale e ha come meta l’unione mistica con il Salvatore. La prerogativa di Tommaso non è del resto esclusiva, ma sembra condivisa alla luce del già citato loghion 12 con Giacomo il Giusto. Nell’indirizzare i discepoli verso di lui, Gesù lo definisce infatti come “colui per il quale sono stati creati il cielo e la terra”, come se Giacomo e Gesù fossero divenuti la stessa persona.

Il loghion 13 ha però anche una seconda parte piuttosto enigmatica, quella che riguarda le “tre parole” che Gesù, trattolo in disparte, rivela a Tommaso. Queste tre parole devono restare segrete. Tommaso afferma, infatti, che se le rivelasse agli altri discepoli questi lo lapiderebbero ed un fuoco uscirebbe dalle pietre che essi gli lancerebbero contro, per bruciarli. Possiamo cercare di capire che significano queste frasi, oltre al dato evidente che vi è qui una rivelazione che deve restare segreta e deve essere nascosta anche agli altri discepoli – addirittura paragonabili qui ai cani e ai porci a cui non bisogna gettare le perle della conoscenza? Si sono fatte delle congetture. Si è ricordato, ad esempio, che secondo la legge giudaica, la lapidazione era prevista per alcune colpe e che tra queste vi era la blasfemia. Ma per essere esposti a una tale pena non era sufficiente proferire semplicemente il nome di Dio invano o maledire Dio. La blasfemia che conduceva alla lapidazione era l’identificazione con Dio. Per cui una delle tre parole dette da Gesù a Tommaso potrebbe essere “lo sono Dio”. Questa interpretazione, che ci porta già dentro la centrale e decisiva questione della cristologia di questo Vangelo, questione che approfondiremo successivamente, è però problematica, in quanto presupporrebbe una precisa cristologia giovannea, ossia l’identificazione fra Gesù e Dio, che non ha riscontro in nessuno dei loghia del VT e che, del resto, non si trova neanche nei sinottici e in Paolo.

Una versione accettabile, ma sempre assolutamente congetturale, della prima parola potrebbe invece essere: “io sono divino”, come autoproclamazione di Gesù o, meglio ancora “tu sei divino, sei diventato divino”, detto da Gesù a Tommaso. La sfera della divinità, nel mondo giudaico, non si risolveva infatti nel Dio unico.

È meno azzardata l’ipotesi che è stata fatta riguardo alla seconda parola detta segretamente da Gesù a Giovanni. Tale parola sarebbe “tu sei me”. Abbiamo già visto, infatti, che Gesù riconosce a Tommaso l’essersi abbeverato alla fonte viva da lui sgorgante, il che ha come conseguenza, alla luce dell’altro loghion, il diventare come Gesù.

La terza parola, secondo taluni, riguarderebbe poi l’ambiguità del termine gemello usato per definire Tommaso: egli è solo il gemello di Gesù o è il gemello per antonomasia, ossia può diventare il gemello di chi legge le parole segrete che Gesù gli ha consegnato e che egli ha scritto ed è in grado di interpretarle correttamente?  In questo caso, la terza parola confermerebbe che Tommaso è anche il modello per gli altri discepoli.

Il loghion 13 contiene inoltre il nucleo della confessione di fede cristologica del “Quinto Vangelo”. Torneremo in modo più dettagliato sulla cristologia del VT, ma non si può non notare subito la distanza dal testo parallelo dei sinottici. La prima differenza è già nella domanda rivolta da Gesù ai discepoli. Nei sinottici è questa: “Chi dice la gente che io sia?”. Nel VT ciò che pensa la “gente di fuori” non pare avere importanza: sono i discepoli e solo loro ad essere interpellati. Le risposte sono poi diverse. Nella tradizione dei sinottici, le risposte non esatte identificano Gesù con Giovanni Battista redivivo, con Elia, con Geremia (Matteo) o con un altro profeta. La risposta giusta la dà Pietro: “tu sei il Cristo” (Mc) – o “il Cristo di Dio” (Lc) o “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt).

La risposta di Tommaso e dunque la confessione di fede del Vangelo a lui intestato, che abbiamo già citato, si potrebbe invece tradurre così: “tu sei l’ineffabile”. Gesù è l’ineffabile. La bocca umana non può dire chi sia Gesù.

Va infine sottolineato come nelle riposte errate o quantomeno incomplete vi sia quella che identifica Gesù con un “filosofo saggio”. E ciò basterebbe a mostrare come siano riduttive le interpretazioni sapienziali del VT. L’elemento sapienziale è certamente presente nel testo, ma Gesù qui è ben più che un maestro di sapienza o una guida spirituale.

Metodo esegetico

L’analisi della figura di Tommaso e della sua “gemellarità” con Gesù ci ha già portato nel cuore di questo apocrifo, ma mi consente anche di precisare subito il metodo che userò per valutarne il messaggio teologico. Si tratta, come si è visto in precedenza, di un testo “stratificato”, un testo che, come dicono i biblisti ha uno “spessore”, nel senso che la sua forma finale, che è quella in cui lo leggiamo oggi, è il risultato di un lungo processo di trasmissione, assemblaggio, rielaborazione di tradizioni risalenti ai decenni precedenti. Questo “spessore” caratterizza innanzitutto i testi dell’Antico Testamento, ma anche, sebbene in modo più limitato e ben più circoscritto nel tempo, alcuni testi del Nuovo Testamento (tra cui i Vangeli sinottici) e molti apocrifi, sia giudaici che cristiani. Quando i biblisti hanno preso consapevolezza di questa fondamentale caratteristica dei testi, si sono sviluppati e hanno avuto grande fortuna i metodi “diacronici” di studio della Bibbia. Queste metodologie sono state adottate anche nell’esegesi dei Vangeli. Una di esse è la Formgeschichte – storia delle forme letterarie, o dei generi letterari – chesi propone di studiare l’origine, la formazione e la trasposizione letteraria di tutto quel materiale elaborato dalla tradizione orale e poi confluito nella redazione dei Vangeli canonici, attraverso l’individuazione e la classificazione delle principali “forme letterarie” o “generi letterari”. Addirittura per studiosi come Schmidt  e Dibelius, più che scrittori gli autori dei Vangeli sinottici andrebbero considerati dei collettori del materiale trasmesso dalla tradizione. La redazione consisterebbe, quindi, nell’opera di raccolta, di “cucitura” e di inserimento in una cornice narrativa di singole pericopi, in sé stesse conchiuse e che avevano in origine esistenza autonoma. Gli interventi del redattore avrebbero un significato del tutto secondario (di “cornice”).

Successivamente, con la nascita della scuola detta della Redaktionsgeschichte (Marxen e Conzelman), la prospettiva muta e fra tradizione e redazione si pone un rapporto di discontinuità. Secondo questa scuola, infatti, ciascun evangelista – lungi dall’essere un mero collettore – utilizza il materiale della tradizione secondo una sua “intenzione teologica”, che va ricostruita proprio analizzando attentamente gli interventi redazionali che prima venivano invece giudicati secondari.

I due metodi non sono però contrapposti, come potrebbe sembrare. Le acquisizioni della Redaktionsgeschichte presuppongono, anzitutto, il lavoro di smontaggio dei testi biblici nelle singole pericopi che li compongono, che è stato reso possibile proprio dal metodo della Formgeschichte; questa ha poi anche evidenziato il processo di elaborazione della tradizione e ha, infine, individuato e isolato gli interventi del redattore finale evangelico (pur giudicandoli secondari). In sostanza, ha offerto alla scuola storico-redazionale il suo materiale di lavoro.

In queste metodologie, che ho sommariamente definito “diacroniche”, la distinzione il più possibile precisa e rigorosa fra tradizione e redazione è fondamentale.  Quando abbiamo trattato del valore del Vangelo di Tommaso per la ricerca sul Gesù storico, abbiamo adottato, come è ovvio, la prospettiva diacronica e ci siamo serviti metodologicamente del contributo di queste scuole, Formgeschichte e Redaktionsgeschichte (e si parla anche di storia o di critica della tradizione, Traditionskritik). Nella ricerca sul Gesù storico, infatti, si tratta proprio di distinguere tradizione e redazione e di risalire alle tradizioni più vicine al tempo e alla vita di Gesù. Ora, però, il nostro problema è un altro ed è quello del contenuto teologico del VT. Pertanto, adotterò un’altra prospettiva metodologica, che è poi quella che negli ultimi decenni è sempre più largamente seguita dagli studiosi e si muove in un’ottica opposta rispetto alle metodologie diacroniche. A prescindere dalla lunga storia redazionale di un testo, dalla individuazione del materiale originario e delle successive rielaborazioni, in questa diversa ottica ci si concentra sulla redazione finale. Ciò che più conta non è la diversa origine e provenienza dei singoli materiali, ma il modo in cui questi sono stati messi insieme per formare un complesso unitario e significativo. Ciò che più conta, non è lo smontaggio del testo e l’esame storico-critico dei singoli “pezzi” e della loro origine e storia, ma il significato, l’intenzione teologica del prodotto finale. L’obiettivo è quindi quello di valutare il testo finale e non la sua storia o preistoria precedente, sebbene questa sia ovviamente presupposta e riconosciuta.

Le parole esoteriche di Gesù

Proprio in questa prospettiva, era necessario partire dall’incipit del Vangelo, che, insieme ai loghia che seguono, ne costituisce come il manifesto programmatico – senza porsi il problema di quanto antico sia questo incipit e quanto antichi siano i primi loghia e di quali eventuali varianti e rielaborazioni abbiano conosciuti. Ciò che conta è questi loghia siano stati posti nella redazione finale all’inizio del testo, evidentemente con una funzione di introduzione allo stesso

L’incipit ci ha portato alla figura di Tommaso, il “gemello di Gesù”. Da qui, e questo è il primo punto acquisito, abbiamo potuto osservare che il VT propone un percorso soteriologico, un itinerario di salvezza di carattere gnoseologico, iniziatico, esoterico e mistico. Tanto più che subito dopo troviamo  questo loghion:

«E disse: colui che troverà l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte».

Si tratta, naturalmente, delle “parole segrete” che Gesù ha rivelato a Tommaso e che Tommaso ha scritto.

La chiave della salvezza sta dunque nelle “parole segrete” di Gesù, delle quali occorre trovare la giusta interpretazione. La segretezza e il livello esoterico del VT non stanno nelle parole in sé stesse – se così fosse non si capirebbe del resto perché il VT riporti detti di Gesù che erano ben noti e che infatti si ritrovano nei sinottici – ma nella loro chiave ermeneutica, nel loro significato profondo e nascosto.

Si potrebbe supporre – come scrive Mauro Pesce, Le parole dimenticate di Gesù – che qui si tratti delle parole che Gesù ha pronunciato durante la sua vita terrena e che vengono ricordate, interpretate e finalmente comprese dopo la sua morte e resurrezione. Anche nel Vangelo di Giovanni vi è questa idea: «Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto» (Gv 14, 25-26). Va però notato che nel VT non vi è la struttura trinitaria della rivelazione che si scorge nel Quarto Vangelo: qui è solo Gesù, è Gesù “il Vivente” che propizia il ricordo e la corretta interpretazione. Non si tratta, quindi, in nessun caso di un percorso che il fedele possa intraprendere autonomamente: è Gesù, perennemente vivo e costantemente presente nelle parole che ha pronunciato – e che Tommaso ha serbato – che guida il discepolo. Queste parole, peraltro, possono essere anche quelle di un insegnamento post-pasquale, come accade in altri scritti gnostici e come già abbiamo sottolineato. Ho anche ricordato che per alcuni studiosi i detti del VT andrebbero interpretati, nell’intenzione dell’autore o degli autori, come parole proferite dal Risorto e non dal Gesù terreno, In tal caso, il brano dei vangeli canonici che andrebbe richiamato per analogia è quello di Luca sui discepoli di Emmaus. I due discepoli, mentre fanno ritorno mestamente da Gerusalemme ad Emmaus dopo la crocefissione di Gesù, incontrano il Risorto lungo il cammino, ma inizialmente non lo riconoscono. Gesù, strada facendo, “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24, 27). Ma è solo quando, all’atto di spezzare il pane, Gesù viene da loro riconosciuto che si aprono i loro occhi: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». In Luca vi è comunque anche il ricordo e la vera comprensione delle parole del Gesù terreno dopo la risurrezione: nell’episodio immediatamente precedente, le donne, dinanzi al sepolcro vuoto e sollecitate dagli angeli, si erano ricordate delle parole dette da Gesù in Galilea: “Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand’era ancora in Galilea, dicendo che il Figlio dell’uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare? Esse si ricordarono delle sue parole” (Luca 24, 6-8). È vero, altresì, che le parole di Gesù ricordate e interpretate in Luca riguardano il significato della sua morte. In Tommaso, invece, come diremo ancora più avanti, non vi è alcuna interpretazione del significato della morte di Gesù, della Crocefissione, della quale neanche si parla mai (sebbene possa essere presupposta).

In ogni caso, che si tratti nel VT di parole pronunciate da Gesù nella sua missione terrena e poi ricordate e interpretate dopo la sua morte, o che si tratti di un insegnamento che viene dato direttamente dopo la risurrezione, è chiaro che, sebbene il VT non contenga racconti della tomba vuota e delle apparizioni del Risorto, esso d’altra parte presuppone la resurrezione di Gesù come evento decisivo per la salvezza dei discepoli. E per salvezza si intende la vita eterna, come chiarisce il loghion 1: chi saprà interpretare le parole di Gesù “non gusterà la morte”.

I cinque momenti dell’ascesi. Il Regno

Non si tratta, peraltro, di una rivelazione istantanea, di una improvvisa e subitanea illuminazione, ma di un difficile percorso, di un’ascesi dal valore ermeneutico e soteriologico. Non a caso, dopo l’incipit e il loghion 1, troviamo questo loghion 2:

«Disse Gesù: “Colui che cerca non smetta di cercare, finché non avrà trovato e quando avrà trovato, sarà turbato, e quando sarà turbato sarà meravigliato e regnerà sul tutto”».

Nel frammento in greco, in luogo di “regnerà sul tutto”, si legge, integrando il testo lacunoso “e [regnando troverà ri]poso».

Il percorso ascetico si articola quindi in cinque passaggi. I primi due sono frequenti nell’Antico Testamento e si ritrovano in Matteo e Luca – che li deriverebbero dalla fonte Q – e in diversi altri testi extracanonici: cercare e trovare. Il terzo momento è quello del turbamento e dello sgomento, nel testo greco espresso con un verbo che significa anche meravigliarsi. Il quarto momento è la condivisione del Regno, della signoria di Gesù, che porta allo stadio finale, alla meta degli “eletti”: il riposo, anaupasis in greco. Il motivo del riposo/anaupasis ha grande rilevanza negli scritti gnostici. Lo troviamo comunque anche in Matteo, 11,29: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime». In Matteo, tuttavia, il detto ha altro senso, nel contesto in cui è inserito; fa sempre riferimento a un insegnamento di Gesù, che però è di tutt’altro genere (“imparate da me, che sono mite e umile di cuore”) e non allude a un percorso iniziatico, esoterico ed ermeneutico.

Il messaggio del VT è dunque questo: chi sa cercare, troverà. Ciò che troverà gli provocherà sgomento e stupore, ma in questo modo sarà unito a Gesù nel Regno e troverà riposo. Lo stupore è legato proprio alla realtà escatologico-apocalittica del Regno, realtà che verrà dischiusa ai discepoli, che irromperà in modo imprevedibile

Diversi studiosi sostengono che l’introduzione del VT con il suo manifesto programmatico continui nei loghia successivi e giunga fino al loghion 3, se non al loghion 5. Il loghion 3, in effetti, definisce il quarto momento del percorso iniziatico: dove e come il discepolo potrà trovare “il Regno”? Gesù invita i discepoli a non credere a coloro che li guidano quando affermano che il Regno è nel cielo o nell’acqua. In tal caso, gli uccelli e i pesci li precederebbero. Il Regno, invece, “è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, allora sarete riconosciuti e saprete che siete i figli del Padre vivente. Ma se non conoscete voi stessi, siete nella miseria e voi siete la miseria”.

Non bisogna assimilare questo detto ad altre concezioni – le varie interpretazioni nella filosofia greca del γνῶθι σεαυτόν (conosci te stesso), inscritto sul tempio di Apollo a Delfi, il tema agostiniano del noli foras ire o, peggio ancora, certe variegate espressioni della “spiritualità new age”. Nel VT l’invito a cercare il Regno dentro di sé è specificato come esortazione a conoscere sé stessi in modo da poter essere “riconosciuti” da Dio e in modo da riconoscersi, a propria volta, come figli del Padre (e proprio in tal senso il Regno è dentro, ma è anche fuori di sé). Si tratta dell’indicazione di un iter mistico, di partecipazione all’essere divino e di identificazione con esso. Si tratta, cioè, di diventare “gemelli” di Gesù, come Tommaso, in modo da condividerne il Regno e trovare “riposo”. Il significato è quindi precisamente opposto rispetto al γνῶθι σεαυτόν, che ammoniva invece il mortale a conoscere i propri limiti, a non oltrepassarli e a non pretendere di assimilarsi alla divinità. Qualche attinenza la si potrebbe invece trovare con Agostino e con la sua teoria della illuminazione, in quanto per il vescovo di Ippona la Verità va cercata sì in interiore homine, ma come luce riflessa e non come luce propria. Tuttavia, Agostino non sviluppa in senso propriamente mistico la sua dottrina. La relazione più forte è invece con Plotino e con il Neoplatonismo e con altre correnti filosofico-religiose e misteriche dello stesso periodo di questo Vangelo.

La porta di accesso al Regno è dunque l’unione mistica con Gesù, in quanto Gesù stesso è l’agente escatologico: “Disse Gesù: Ho gettato fuoco sul mondo, ed ecco!, lo custodisco fino a che esso bruci”. Dove il pronome “lo” può riferirsi tanto al fuoco, quanto al mondo.

Approfondiremo dunque il messaggio escatologico-apocalittico di questo Vangelo, il suo carattere mistico e la sua specifica cristologia.

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