Fra le molte grossolane ingenuità di coloro che credono di aver scoperto la “vera storia”, la “controstoria”, la storia “che i libri di testo non ci raccontano” (ovviamente non si tratta mai di storici di professione) vi è un equivoco esiziale: è l’idea che la storia segua un piano predeterminato, ossia l’idea della storia come “complotto”. A chi la studia seriamente la storia non può invece che apparire il terreno dell’imponderabile e dell’imprevedibile. Non certo nel senso della assoluta irrazionalità, del caos totale, ma nel senso che ogni vicenda ha diversi possibili sviluppi; molto spesso la soluzione che si afferma non è quella che appariva più probabile e razionale, molto spesso le scelte dei soggetti agenti portano a risultati e conseguenze molto diversi da quelli che essi prevedevano e si proponevano di conseguire (l’ “eterogenesi dei fini”).
Un buon esempio, fra i tanti, è il decollo della potenza statunitense, che non era affatto iscritto nella rivoluzione americana e nella raggiunta indipendenza e che fu possibile, nel corso del tempo, in seguito a una serie di circostanze imponderabili e persino bizzarre. La rivoluzione americana e l’indipendenza raggiunta dalle tredici colonie britanniche non porta, infatti, alla nascita di una potenza né mondiale, né continentale, ma di uno Stato fragile, lacerato da profondi contrasti interni, isolato sul piano internazionale, la cui sopravvivenza stessa è fortemente in dubbio. È difficile immaginarlo per chi è nato nel “secolo americano”, ma i neonati USA, sul finire del XVIII secolo, sono un nano rispetto al gigante britannico. E la Gran Bretagna aveva rinunciato a proseguire il conflitto, si era “rassegnata” all’indipendenza politica delle sue ex-colonie per tenerle meglio e più strettamente subordinate ai suoi interessi commerciali. Non desta quindi meraviglia che all’indomani dell’indipendenza, questa subordinazione – che era stato poi il fondamentale motivo che aveva spinto i coloni a ribellarsi – divenga persino più stringente. Né sorprende che nei primi decenni di vita della Nazione americana si fronteggino al suo interno due diversi “partiti”, quello filobritannico, che coincide più o meno con il partito “federalista”, e quello filofrancese, che coincide più o meno con il partito “repubblicano”. Potrebbe destare stupore semmai proprio l’esistenza di un partito filobritannico, ma bisogna considerare che la Francia, che pure ha fornito un appoggio decisivo alla rivoluzione americana, è attenta ai propri interessi non meno dell’Inghilterra e che a sua volta tende a tenere il nuovo Stato americano in una condizione di soggezione. Anche rispetto alla Francia, gli USA sono un “nano”, a fine Settecento.
Nell’Amministrazione di George Washington, primo Presidente della Repubblica, i due partiti sono rappresentati al più alto livello: da Hamilton, segretario al Tesoro, il partito federalista filobritannico, e da Jefferson – principale autore della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e ora Segretario di Stato – il partito repubblicano e filo-francese. Anche gli altri maggiori leader politici vanno a collocarsi nell’uno o nell’altro fronte: Adams tra i filobritannici, Madison tra i filofrancesi, ad esempio.
La rivoluzione francese e l’inizio di un lunghissimo conflitto tra Francia e Inghilterra – conflitto che durerà dal 1792 al 1815 – costringono gli USA a scelte difficili e rischiosissime. Washington, saggiamente, segue una prudente politica di mediazione fra i due opposti partiti, tra anglofili e anglofobi, potremmo dire, e questo al di là delle sue personali convinzioni. È così che nell’aprile del 1793, Washington proclama la neutralità degli USA nella guerra in corso. È una scelta che evita la catastrofe, ma che espone gli USA alle ritorsioni dei due contendenti, che non si rassegnano a non poter utilizzare il territorio del giovane Stato come propria retrovia e risorsa nel conflitto in atto. Le provocazioni britanniche, con ulteriore strozzatura degli interessi commerciali statunitensi, alleanza con le nazioni indiane, ecc., sono molto gravi, ma quelle francesi addirittura insostenibili: l’inviato francese pretende di utilizzare i porti americani per trasportarvi le navi britanniche sequestrate in Atlantico e progetta l’invasione del Canada inglese. Alla fine, Washington, per evitare una guerra con gli inglesi, è in un certo senso costretto a raggiungere con loro un qualche accordo. Ciò non significa affatto, tuttavia, il prevalere del partito filobritannico, in quanto il trattato di Jay, come poi viene chiamato, provoca l’accesa protesta dei repubblicani e acuisce le tensioni interne. Tuttavia, esso evita la guerra e risolve alcune fondamentali questioni pendenti con la Gran Bretagna, anche se continua a limitare fortemente il raggio d’azione dei commerci statunitensi.
Qualche anno dopo, siamo ormai sotto la Presidenza Adams e nell’epoca post-Washington – il primo Presidente aveva annunciato di non volersi ricandidare e consegnato il suo testamento politico in un importantissimo discorso, il Farewell Address – si prova a risolvere anche le più gravi questioni pendenti con la Francia, a cominciare da quella del debito statunitense. L’arroganza della delegazione francese non consente, però, una conclusione positiva: tra le condizioni inaccettabili e umilianti che si pretende di imporre vi è persino il pagamento di una tangente personale a Talleyrand e ai membri del Direttorio – definita pot de vin! Nella sostanza, il diktat francese è però irricevibile, perché segnerebbe la violazione palese della neutralità statunitense e la prevedibile reazione britannica.
Con il trattato di Jay gli USA avevano ottenuto una fondamentale garanzia dalla Spagna, con la mediazione inglese: il diritto di accesso al corso del Mississippi e al porto di New Orleans. Sia il fiume che la città erano infatti sotto il controllo spagnolo. È su tale questione ed è in questa regione – la Louisiana, come l’avevano battezzata i francesi – che si gioca veramente il destino degli USA. Attraverso il Mississippi e il porto di New Orleans passa la gran parte del commercio statunitense. Senza il controllo delle sponde del fiume, inoltre, i territori del Nord-Ovest non hanno prospettive e l’espansione verso Ovest, decisiva per conservare una reale sovranità, sottraendosi al ricatto delle potenze europee, è bloccata. La Spagna non costituisce un problema, ma quando nel corso delle guerre napoleoniche la Louisiana, con il Mississippi e New Orleans, passano alla Francia, il contraccolpo per gli USA rischia di essere mortale. Ed ecco invece, l’imponderabile: Napoleone, conclusasi una breve tregua, deve impegnarsi nella grande guerra continentale contro l’Inghilterra. La Louisiana non ha più un’importanza strategica per la Francia, che deve invece proprio evitare l’apertura di un fronte di guerra americano e ha bisogno di risorse economiche. E così Napoleone vende agli USA tutta la Louisiana in cambio di 11,25 milioni di dollari, più l’estinzione del debito francese di 3,75 milioni di dollari. Con l’acquisizione di questo territorio, del Mississippi e di New Orleans, si realizza il vero decollo geopolitico degli USA: gli USA hanno un accesso senza precedenti al Golfo del Messico, l’integrazione fra gli Stati orientali e i nuovi territori nord-occidentali può realizzarsi e l’espansione verso Ovest non ha più ostacoli. Occorreranno altri passaggi e di qui a poco persino una guerra contro la vecchia Madre Patria, ma l’aereo della futura potenza americana è ormai sulla rampa di decollo. E, contro ogni visione complottista della storia, a portarlo su quella pista non sono state le trame di qualche loggia massonica, ma è stato, suo malgrado, Napoleone Bonaparte. Vi si può vedere il trionfo della hegeliana Astuzia della Ragione, vi si può vedere quella “Provvidenza Speciale”, della quale, come dirà Bismarck, sembrano godere i pazzi e gli americani. Per lo storico, si tratta solo della trama imprevedibile, sorprendente, complessa e per questo affascinante della storia reale.
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