IL CAMPO DI STERMINIO DI BELZEC

La storia del campo di sterminio nazista di Belżec è rimasta completamente sconosciuta fino a pochi anni fa e tuttora è nota a pochissimi. Eppure a Belżec furono uccisi centinaia di migliaia di ebrei (il numero preciso è controverso, ma non è certamente inferiore a 450.000), a Belżec il genocidio incominciò prima ancora che ad Auschwitz, Belżec fu un abominevole lager laboratorio, i deportati venivano uccisi nelle camere a gas il giorno stesso del loro arrivo o comunque entro brevissimo tempo e i sopravvissuti di questo campo di sterminio furono solo due. Questa inconcepibile rimozione deriva da diversi fattori: la scarsa attenzione prestata in generale al genocidio degli ebrei orientali (che a sua volta ha origine da varie cause), l’indifferenza del regime comunista, qui come altrove, per i luoghi dell’eccidio e per la loro memoria, dovuta anche alle campagne “antisioniste” (in Polonia una campagna del genere vi fu tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta); la collocazione periferica e quasi remota del sito.
Un lager-laboratorio

Belżec si trova oggi nella Polonia sud-orientale, proprio al confine con l’Ucraina. Il villaggio aveva acquistato notevole importanza con la costruzione nel 1884 della linea ferroviaria L’vov-Varsavia. L’vov (oggi L’viv) era la principale città della provincia asburgica della Galizia ed era stata una delle più importanti città del Regno di Polonia, popolata, come tante altre, da una numerosissima comunità ebraica, attiva in tutti i settori della vita economica e civile. Oggi la città è il maggiore centro dell’Ucraina occidentale ed è soggetta a ripetuti bombardamenti russi. Quando i nazisti occuparono la Polonia nel 1939 e poi dopo l’inizio della “Operazione Barbarossa” e con l’avanzata verso Est, Belzec venne a trovarsi in una posizione ideale per collocarvi un lager. Da un lato era infatti servita dalla già citata ferrovia; dall’altro lato, si trovava nel Governatorato Generale – il territorio polacco non direttamente annesso alla Germania e sottoposto al feroce governo del famigerato Hans Frank e alla speciale cura del capo delle SS Himmler – all’incrocio delle tre regioni di Cracovia, Lublino e L’vov e quasi ai confini con il Reichskommissariat ucraino (l’Ucraina occupata nel corso dell’offensiva contro l’URSS).
Nel giugno 1941, con l’inizio della Operazione Barbarossa e dell’occupazione del territorio sovietico, il “problema ebraico” si pose in modo pressante dinanzi ai vertici nazisti. Già con l’occupazione di parte della Polonia, i nazisti si erano trovati a dover “gestire” centinaia di migliaia di ebrei – un numero molto più elevato rispetto a quello degli ebrei tedeschi. Ora, con l’invasione dei territori sovietici – le regioni orientali della Polonia occupate da Stalin nel 1939 grazie al Patto Molotov-Ribentropp, l’Ucraina, la Bielorussia, la Lituania, la Lettonia – i nazisti si trovavano di fronte a milioni di ebrei (gran parte dei sei milioni di vittime della Shoah verranno da queste regioni). Furono subito costituite delle unità speciali di polizia conosciute come Einsatzgruppen, per iniziativa e sotto il coordinamento di Reinhard Heydrich, capo dell’Ufficio Centrale di Sicurezza, alle dirette dipendenze di Himmler. Heydrich pochi mesi dopo – il 20 gennaio 1942 – sarà l’organizzatore della Conferenza di Wannsee, nella quale fu decisa la “soluzione finale” del problema ebraico. In realtà, già con la costituzione degli Einsatzgruppen era incominciato lo sterminio di massa degli ebrei orientali, sebbene senza ancora una sistematica pianificazione.
A Wannsee, Joseph Bühler, che rappresentava il Governatore Frank, chiese ed ottenne che la “soluzione finale” venisse applicata innanzitutto nel territorio del Governatorato Generale, in quanto in esso si trovava la più numerosa popolazione ebraica, era fuori dalle regioni tedesche o annesse alla Germania (Auschwitz si trovava invece nella Slesia divenuta territorio della “Grande Germania”), non era vicina al fronte e non vi erano problemi di “trasporto”. Nel periodo precedente gli ebrei che vivevano nelle città maggiori erano stati confinati nei ghetti – in Polonia istituiti a Cracovia, Lublino, Varsavia, Poznan, Zamosc, L’vov. A partire dal marzo 1942 i ghetti furono liquidati e gli ebrei furono avviati ai campi di sterminio, esclusi quelli impiegati in lavori considerati utili e necessari. Il primo “carico” di ebrei giunse a Belżec il 17 marzo 1942, provenendo dai ghetti di Lublino e L’vov. Nelle settimane successive, altri carichi giunsero da Cracovia, da Zamosc, da Tarnow e, ancora, da Lublino e L’vov. Fin dall’ottobre 1941 erano comunque incominciati i lavori per la costruzione del lager di Belzec e delle camere a gas. A marzo le camere a gas incominciarono la loro opera di sterminio, con l’uso del monossido di carbonio – e non dello Zyklon B (introdotto successivamente).
Belżec, come si diceva, fu un lager-laboratorio dello sterminio di massa. Ad Auschwitz le camere a gas erano già state usate episodicamente, per un numero molto limitato di esecuzioni che avevano riguardato soprattutto prigionieri politici e militari polacchi e sovietici. L’adozione di questo strumento di morte per la “soluzione finale del problema ebraico” fu però sperimentata proprio a Belżec, a partire da quello stesso 17 marzo, con l’arrivo del primo convoglio. A Belżec, infatti, a differenza che ad Auschwitz e in altri lager, i deportati venivano immediatamente uccisi e sepolti nelle fosse comuni. Pochi giorni dopo l’”esperimento” di Belzec, lo sterminio incominciò anche ad Auschwitz. Nei mesi successivi furono inaugurati altri due campi di sterminio, più a nord, sempre nel territorio del Governatorato Generale nazista di Polonia: quello di Sobibor (maggio 1942) – un altro lager quasi dimenticato – e quello di Treblinka (luglio 1942), più noto perché vi vennero sterminati, tra gli altri, gli ebrei del ghetto di Varsavia.
L’operazione di sterminio di massa nel Governatorato Generale, nella seconda parte dell’anno 1942, prese il nome di Aktion Reinhardt, in “onore” di Reinhardt Heydrick nel frattempo caduto vittima a Praga di un attentato della Resistenza ceca.
Intanto, un altro lager, prima campo di lavoro poi anch’esso di sterminio, era stato costruito alla periferia di Lublino, il campo di Majdanek.
Lo sterminio e i carnefici

Come si diceva, i deportati che giungevano a Belżec venivano uccisi entro poche ore o pochissimi giorni. Alcuni non arrivavano neanche vivi: i più deboli non sopravvivevano al trasbordo, dal ghetto al lager, che durava uno o due giorni, un tempo che dovevano trascorrere stipati nei vagoni, senza cibo e senza acqua, tra i loro escrementi. Al loro arrivo, le SS aprivano il vagone, facevano scendere i deportati e sgomberavano i cadaveri. A differenza che in altri lager, non vi erano selezioni per il lavoro, con la sola eccezione di 80-100 prigionieri del primo carico che furono utilizzati per vari servizi, prima di essere sterminati a loro volta. Tra i loro compiti, vi era quello atroce di scavare le fosse comuni e di trasportarvi i corpi dei loro compagni uccisi dal gas. Altri erano addetti alla pulizia delle camere a gas, all’estrazione dei denti d’oro, alla ricerca di altri valori nascosti addosso ai prigionieri.
I deportati venivano accolti a Belżec da un messaggio tranquillizzante, trasmesso dagli altoparlanti, per evitare scene di panico e tentativi di ribellione. Si diceva loro che dovevano liberarsi dei vestiti per poter procedere a docce e disinfezione, ma che per il momento potevano tenere denaro, documenti e oggetti di valore. In seguito, venivano rassicurati, avrebbero avuto del cibo caldo e, appena ristorati e riposati, sarebbero stati avviati verso i nuovi insediamenti ebraici appositamente costruiti ad Est (che in realtà non esistevano).
Le donne venivano subito rasate a zero (i capelli vennero poi utilizzati dall’industria bellica). In file separate, donne e uomini venivano avviati verso le camere a gas – dove credevano di trovare solo delle docce. La morte sopraggiungeva dopo 20-30 minuti di spasmi.
Al comando del lager si avvicendarono due personaggi, Christian Wirth e Gottlieb Hering. Provenivano entrambi dalla Operazione T4 (Aktion T4), a sua volta laboratorio del genocidio ebraico. Aktion T4 fu il programma di eugenetica del regime nazista, avviato già nell’estate del 1933 e che portò alla sterilizzazione coatta e poi in molti casi alla soppressione fisica, sempre per via medica, di persone affette da malattie genetiche o da handicap mentali, le cosiddette “vite indegne di essere vissute”. Wirth, con il grado di Obersturmführer, aveva partecipato nel 1939 e nell’ambito di questa operazione ad esperimenti con camere a gas a monossido di carbonio. Nel 1941 era stato assegnato a Lublino, per supervisionare l’allestimento delle camere a gas a Belżec. Il suo successore, Hering, era rimasto nel programma T4 fino all’agosto del 1942 per poi venir trasferito a Belżec e guidare l’ultima fase dello sterminio fino alla chiusura del lager. Per una singolare coincidenza, entrambi i carnefici morirono in Italia, a Trieste, Wirth, il 26 maggio 1944 in uno scontro con i partigiani, ed Hering, in ospedale, a guerra finita, nell’ottobre 1945.
Sono stati identificati 37 membri delle SS che prestarono servizio a Belżec. Di questi, solo 11 morirono prima della guerra, mentre tutti gli altri, a parte uno che si suicidò a metà degli anni Sessanta, dopo essere stato arrestato, sono riusciti a farla franca. Alcuni di loro furono peraltro arrestati e processati nel 1963, ma il tribunale di Monaco li prosciolse, sostenendo che avevano agito sotto coercizione. Solo uno di loro fu condannato a 5 anni di prigione per aver contribuito alla soppressione di 300.000 persone…
A Belżec vi era un corpo di guardia, reclutato tra l’altro fra prigionieri dell’Armata Rossa di origine tedesca (i cosiddetti Volksdeutschen). Costoro avevano il compito di sorvegliare i prigionieri, fino alla loro soppressione, evitando rivolte. In questo corpo di guardia vi erano dei sadici che talora si comportavano in modo ancora più crudele rispetto alle stesse SS e approfittavano della loro posizione per ottenere dei profitti illegali. Nell’aprile del 1943, molti furono uccisi dagli stessi nazisti, con l’accusa di aver tentato di fuggire o di ribellarsi. La guardia fu così quasi completamente rimpiazzata. Con lo smantellamento del campo, i suoi membri seguirono i comandanti nella zona di operazioni di Trieste. Alcuni di loro furono poi catturati dai sovietici, processati e condannati a morte. L’ultimo superstite del corpo di guardia di Belżec, Samuel Kunz, un Volksdeutsch proveniente dall’URSS, è morto a Bonn nel 2010, all’età di 89 anni. Non è mai stato processato.
Due sopravvissuti

Tra le centinaia di migliaia di deportati a Belżec solo due furono i sopravvissuti. Entrambi facevano parte dei pochissimi prigionieri-lavoratori e riuscirono a salvarsi in modo rocambolesco. Rudolf Reder, sessantenne all’epoca, proprietario di una azienda chimica a L’vov, aveva guidato la nazionalizzazione dell’industria chimica cittadina durante l’occupazione sovietica. Deportato a Belżec dai nazisti, si offrì volontario vantando le sue competenze di meccanico e installatore. Finì per lavorare nelle “brigate della morte”, formate da coloro che si occupavano delle fosse comuni. A novembre fu inviato con una scorta a L’vov per degli approvvigionamenti. Aiutato da due concittadine riuscì a scappare. Alla fine della guerra, si stabilì a Cracovia, cercando di ricominciare la sua vecchia attività imprenditoriale, ma fu arrestato dalle autorità comuniste, incaricate della liquidazione delle compagnie private. Nel 1951 riuscì a rifugiarsi in Israele sotto falso nome, dopo aver sposato una delle donne che lo aveva aiutato a scappare dai nazisti, e l’anno dopo emigrò in Canada, dove morirà nel 1977.
Non meno avventurosa la storia dell’altro sopravvissuto, Chaim Hirtzman, trentenne all’epoca, originario della regione di Lublino. Fu deportato a Belżec insieme alla moglie Sara e al loro bambino di due anni. La moglie e il figlioletto finirono subito nella camera a gas, mentre lui fu reclutato nelle “brigate della morte”. Lavorò infine allo smantellamento del campo. Con gli altri pochi superstiti di Belżec fu avviato verso l’altro lager ancora attivo, quello di Sobibor, ma riuscì a saltare giù dal treno e a fuggire. Si unì alla resistenza polacca e all’arrivo dei sovietici si impiegò temporaneamente nel dipartimento regionale di pubblica sicurezza, dal quale si licenziò nel marzo del 1946. Si era intanto rifatto una famiglia e forse si proponeva di emigrare. Il 19 marzo aveva cominciato a testimoniare su Belżec, ma la sera stessa fu ucciso da alcuni ragazzi che operavano in una organizzazione anticomunista e pare volessero delle armi da lui. Una vicenda che resta poco chiara.
Le rivolte e la liquidazione dei campi di sterminio di Belżec e Sobibor

Nell’altro campo di sterminio, quello di Sobibor, vi fu una clamorosa rivolta nell’ottobre del 1943 (raccontata anche in un film: Sobibor. La grande fuga). Seicento prigionieri cercarono di evadere e oltrepassare torrette di guardia e campi minati, dopo aver ucciso dodici SS. La metà di loro riuscì effettivamente a fuggire, ma la maggior parte furono in seguito catturati ed uccisi dai nazisti o – particolare atroce – consegnati a questi dalla popolazione locale. Si calcola comunque che oltre un centinaio di prigionieri sia riuscito a salvarsi. In seguito alla rivolta, il lager di Sobibor fu smantellato. I superstiti noti di Sobibor sono 58.
Vi è una testimonianza su un tentativo di rivolta anche a Belżec, nel giugno del 1942, Tutti i partecipanti sarebbero stati uccisi dalle SS. La notizia non ha mai trovato riscontro, ma giunse comunque al governo polacco in esilio a Londra, che informò gli Alleati dell’esistenza del campo di Belżec. Ma gli Alleati non risposero né a questo, né ad altri report del genere. La storia ufficiale della Shoah e dei lager nazisti incomincerà solo con la scoperta – la “liberazione” – di Auschwitz. Quella dei campi di Belżec o Sobibor resterà invece sconosciuta per diversi decenni ancora.
Negli ultimi mesi del 1942, le deportazioni a Belżec si intensificarono, le camere a gas lavorarono alacremente e le fosse comuni si riempirono fino all’inverosimile. È il periodo centrale del genocidio ebraico nell’Europa Orientale. Si calcola che nel marzo del 1942, il 75-80% delle vittime della Shoah fosse ancora in vita. All’inizio del 1943, la percentuale si era invertita: i sopravvissuti erano ora solo il 20-25% e sarebbero stati sterminati anche loro negli ultimi due anni di guerra.
Belżec fu smantellato entro il giugno 1943, probabilmente perché non c’era più spazio nelle fosse comuni. Gli ultimi prigionieri furono trasferiti a Sobibor. I nazisti fino a luglio 1943 si impegnarono a cancellare ogni traccia del lager e dello sterminio. Molti corpi furono riesumati e bruciati, ma altri cadaveri restarono nelle fosse comuni.
Il lungo oblio

Nel dopoguerra, una prima ispezione nel 1946 confermò la presenza di fosse comuni, ma il regime comunista polacco lasciò il sito in totale abbandono. Nella zona furono anche costruiti degli edifici. Solo dopo la caduta del Muro di Berlino, anche per un certo afflusso di visitatori, si decise finalmente il recupero della memoria di questo luogo d’orrore. Non mancarono i negazionisti – questo è l’unico uso legittimo del termine – che smentivano l’esistenza delle fosse comuni e dello sterminio di massa a Belzec. Fu quindi istituito un team di archeologi e storici che dal 1997 al 2000 compì degli scavi e individuò 33 fosse comuni, per una capienza di circa 16.000 metri cubi.
Nel 2004 fu così costruito un monumento-memoriale e l’area del lager e delle fosse comuni fu coperta di pietre, una per ogni morto, e circondata da una lunga serie di targhe che ricordano tutte le città di provenienza delle vittime.
Belżec resta tuttavia un luogo remoto, sia geograficamente, sia nella memoria storica. Dopo la drammatica ridefinizione dei confini polacchi nel 1945, il villaggio e il sito del lager si trovano esattamente sul confine con l’Ucraina. A una manciata di chilometri vi è di nuovo la guerra, di nuovo le bombe. Questo scoraggia anche le pochissime persone che conoscono la storia del lager. Quando vi sono giunto, in piena estate, vi erano solo altri tre o quattro visitatori. Ho acquistato un opuscolo e la ragazza dietro lo sportello mi ha chiesto da dove venissi, “per la statistica”. Quando ha saputo che arrivavo dall’Italia, mi ha sorriso contenta. Stava anche dimenticando di farmi pagare l’opuscolo che avevo acquistato.
Di fronte alla distesa di pietre nere del campo di sterminio di Belżec, che sembra ciò che resta di una eruzione vulcanica, non puoi non pensare al numero sterminato delle vittime – 400.000 o 600.000 che siano – a quello che hanno subito prima di essere uccise dal gas, alle violenze, alle umiliazioni, alla cancellazione dei quartieri ebraici, della civiltà ebraica, della vita ebraica a Cracovia, a Lublino (una volta chiamata la “Gerusalemme polacca”) a L’vov e in tantissime altre città, alle squadre della morte che seppellivano i loro stessi familiari e amici nelle fosse comuni, agli unici due deportati che sono avventurosamente sopravvissuti, all’impunità per gran parte dei carnefici e, infine, al fatto che tutto ciò resta ignoto alla stragrande maggioranza delle persone.
Qui anche la memoria è stata soffocata dal monossido di carbonio.
Di fronte all’orrore
Mentre guardi le pietre nere di Belżec , sei dinanzi all’orrore, al male assoluto. E senti che anche tu sei coinvolto in quell’orrore, anche tu hai una colpa da espiare, anche se non eri ancora nato, anche se non sei tedesco e tantomeno nazista. E senti che una forza invincibile ti spingerà a ricordare e a raccontare, per gli anni che ti restano da vivere. Perché è l’unica cosa che puoi fare.

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