
A questo punto, dopo tutto quello che abbiamo detto, la domanda sorge spontanea: perché il VT non è diventato effettivamente il Quinto Vangelo, ossia perché non è stato inserito nel canone del Nuovo Testamento? E come dobbiamo considerarlo noi oggi? Dovremmo forse riaprire la questione del canone? Si potrebbe immaginare che il motivo per cui il VT è un Vangelo apocrifo stia nel suo contenuto non ortodosso, se non apertamente eretico, stia cioè nel fatto che si tratta di un Vangelo gnostico. E tuttavia questa attribuzione allo gnosticismo del VT oggi è discussa e la tesi prevalente è anzi che il VT non sia un Vangelo gnostico. Personalmente ho delle riserve sulla perentorietà con cui tanti studiosi oggi negano che il VT appartenga alla corrente gnostica, rovesciando così la tesi tradizionale. Tuttavia, su una cosa mi pare che si possa essere tranquillamente d’accordo: il VT non è più “gnosticizzante” del Vangelo di Giovanni. E dunque è piuttosto problematico ritenerlo eretico. Ciò però non significa che si possa o si debba considerarlo il Quinto Vangelo canonico. Sulla questione della canonicità, prima di passare all’esame del contenuto teologico, è quindi necessario qualche chiarimento.
Incominciamo dall’uso del termine “apocrifo” e dai caratteristici e significativi mutamenti semantici che la parola ha subito. Il VT è classificato tra gli “apocrifi”. Apocrifo nella lingua italiana attuale ha due significati: indica un testo escluso dal canone delle Sacre Scritture e indica inoltre un testo non autentico. Come vedremo, non è detto che il secondo significato sia sempre associato al primo e, in ogni caso, la valutazione dell’autenticità di un testo nell’antichità non corrispondeva senz’altro a quella moderna.
Il VT è dunque oggi definito apocrifo, in quanto non canonico. Ma – ed ecco la prima precisazione che occorre fare, nel periodo di formazione, di revisione e poi di redazione finale del VT non esistevano ancora scritti “canonici” e scritti non canonici. Le prime proposte di un canone delle Sacre Scritture, come si diceva, risalgono proprio alla metà del II secolo, ossia sono di poco successive alla probabile stesura finale del VT; ancora per lungo tempo, per vari secoli, alcuni testi restarono in discussione. Alla fine alcuni di questi libri, come il Pastore di Erma, vennero esclusi dal canone, altri, come la lettera agli Ebrei (a lungo discussa nella chiesa occidentale) e l’Apocalisse di Giovanni (a lungo discussa nella chiesa orientale) vennero invece inclusi. È vero che alla fine del II secolo, sebbene il canone complessivo fosse ben lungi dall’essere formato e chiuso, la canonicità di alcuni scritti era ormai un dato consolidato e tra questi vi erano innanzitutto i Quattro Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, ma il VT, come abbiamo visto, è di un’epoca precedente ed è un’epoca in cui ogni comunità aveva il suo vangelo, il vangelo di riferimento, il vangelo che considerava normativo e che esprimeva la tradizione specifica di quella comunità e il suo modo di vivere la fede in Cristo. Dunque è solo più tardi che il VT finisce tra gli apocrifi, intesi come non canonici.
La storia del termine apocrifo e del suo slittamento semantico è peraltro interessante. Apocrifo, in base all’etimologia greca, significa nascosto, segreto, ma con la costituzione del canone l’aggettivo passa a indicare quegli scritti che vengono esclusi dal canone in quanto sono ritenuti falsi, non autentici.
Si impongono alcune considerazioni. La prima è che questo mutamento semantico è in effetti comprensibile alla luce dello scontro che si era profilato tra il II e il III secolo. Da un lato, c’erano comunità cristiane che, accanto e al di sopra della rivelazione pubblica e manifesta della Parola di Dio data in Gesù e nella testimonianza apostolica, ponevano una rivelazione segreta e iniziatica che lo stesso Gesù avrebbe consegnato ad alcuni dei suoi discepoli, rivelazione che doveva inoltre restare segreta. In questi gruppi, che sono innanzitutto quelli gnostici, la testimonianza più autentica e importante di Gesù doveva quindi restare “apocrifa”, nel senso letterale ed etimologico del termine. Lo stesso VT, comunque se ne voglia poi considerare la relazione con lo gnosticismo, si colloca programmaticamente in questa prospettiva, poiché le prime parole che vi si leggono sono queste: “Queste sono le parole segrete che Gesù il vivente ha proferito e Giuda detto anche Tommaso (versione greca, Giuda Didimo Tommaso nella versione copta) ha scritto”.
Sul fronte opposto, troviamo invece quella che si usa chiamare “la grande chiesa”, ossia la chiesa che nella seconda metà del II secolo è o si avvia diventare maggioritaria, con i suoi eresiologi, a cominciare da Ireneo. La “grande chiesa” combatte come eretica la concezione gnostica, contrapponendole il carattere integralmente pubblico della testimonianza apostolica. Non vi è una verità più alta, spirituale, iniziatica, non vi è distinzione fra gli eletti – i pneumatici nello gnosticismo valentiniano – e i cristiani ordinari- gli psichici, nella stessa corrente gnostica.
Si trattava di una questione teologica ovviamente importante, ma anche di una questione di potere: la “grande chiesa” combatte la segretezza della rivelazione perché essa comprometterebbe il criterio della successione apostolica, ossia la trasmissione della verità rivelata dagli apostoli ai diversi vescovi, minando così l’autorità di questi ultimi e la nascente struttura ecclesiastica. Scrive, infatti, Ireneo:
«Dunque la Tradizione degli apostoli, manifestata in tutto quanto il mondo, possono vederla in ogni Chiesa tutti coloro che vogliono vedere la Verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi. Ora essi non hanno insegnato né conosciuto sciocchezze come quelle che insegnano costoro. Infatti, se gli apostoli avessero conosciuto misteri segreti, che avrebbero insegnato a parte di nascosto ai perfetti, certamente prima di tutto li avrebbero trasmessi a coloro i quali affidavano le Chiese stesse».
In altri termini, se vi fosse una dottrina, una rivelazione segreta e i vescovi delle varie chiese non ne fossero al corrente, essi sarebbero delegittimati, non potrebbero rivestirsi dell’autorità apostolica.
Su queste basi, nasce l’identificazione tra apocrifo, non canonico e non autentico. La non autenticità si riferisce evidentemente a questo: determinati libri non contengono il vero messaggio affidato da Gesù agli apostoli, la genuina testimonianza degli apostoli.
Tuttavia, non tutti i libri apocrifi ed esclusi dal canone vengono considerati eretici e neanche sconvenienti a leggersi per un cristiano. Ad esempio, Eusebio di Cesarea, storico dell’età di Costantino, nella sua Storia ecclesiastica, distingue tre categorie di libri: quelli “accettati”, che ormai si possono considerare canonici; quelli contestati, ma accolti dalla maggioranza (le lettere di Giacomo, Giuda, II Pietro, II e III Giovanni); quelli contestati e non autentici, tra i quali vi sono il Pastore di Erma, l’Apocalisse di Pietro e altri. Ma, a parte il fatto che lo stesso Eusebio non sa in che gruppo inserire l’Apocalisse di Giovanni, perché per alcuni dovrebbe stare nel secondo e per altri nel terzo gruppo, lo storico si accorge evidentemente di un problema: tra i libri “spuri”, ossia non attribuibili a un apostolo e quindi non canonici se ne trovano molti che non sono affatto da proibire, anzi la cui lettura personale e privata è pure edificante per un cristiano. Un buon esempio è la Didachè. E allora Eusebio ritiene necessario operare una ulteriore distinzione: ci sono libri che non devono essere neanche classificati fra quelli spuri, ma “rifiutati come assolutamente assurdi ed empi”, sebbene vadano sotto il nome di apostoli. E tra questi libri Eusebio inserisce il VT. A quel punto, sul VT era ormai calata la scure del giudizio. Ma siamo già nel IV secolo.
E tuttavia il lettore moderno del VT, anche il lettore ben istruito nel dogma cristologico, fatica oggi a trovarvi parole “assurde ed empie”. Si ripropone allora il problema della canonicità? E come dobbiamo in ogni caso considerare questo scritto, almeno a livello personale, perché evidentemente la riapertura della questione del canone all’interno della chiesa appare assai improbabile e anche tecnicamente proibitiva (quale soggetto o istanza dovrebbe pronunciarsi? E come potrebbe ottenere questo soggetto, ammesso ad esempio, che fosse un concilio, il riconoscimento delle diverse confessioni cristiane)?
Si potrebbe dire che non è nemmeno un Vangelo, perché è una raccolta di detti senza cornice narrativa, ma questa definizione del genere letterario del Vangelo dipende dal fatto che utilizziamo come modello quello dei Vangeli canonici, con la loro tipica struttura. Si tratta dunque di uno pseudo-argomento: vorremmo valutare la canonicità del VT, ma stabiliamo preventivamente un criterio che ne esclude la canonicità!
D’altra parte, non è su valutazioni letterarie che si è basata la chiesa dei primi secoli per elaborare il canone. Sostanzialmente furono adottati due criteri. Il primo fu quello della “autorità apostolica” dei testi, ossia la possibilità di attribuirli ad uno degli apostoli (comprendendo naturalmente Paolo nel novero) o quantomeno a un loro diretto portavoce. Come abbiamo visto, citando l’opera di Eusebio, nell’antichità non è certo assente una sorta di coscienza “filologica”: Eusebio si accorge che VT è “spurio”, ossia è falsamente attribuito all’apostolo di Gesù. Lo stesso Eusebio cita l’opera di Dionigi d’Alessandria (III secolo) che con quelle che oggi definiremmo raffinate tecniche filologiche era giunto alla conclusione che l’autore dell’Apocalisse non poteva essere l’apostolo Giovanni. Tuttavia, gli antichi avevano una diversa concezione della pseudoepigrafia rispetto a noi. Un testo attribuito pseudoepigraficamente a un autore poteva essere considerato “autentico”, in quanto si supponeva che ne contenesse l’autentico pensiero, sebbene fosse stato materialmente redatto da qualcun altro. Bisogna inoltre ricordare l’importanza primaria che ha la trasmissione orale delle testimonianze apostoliche su Gesù fino almeno alla metà del II secolo: se anche il Vangelo di Matteo non fosse stato redatto dall’apostolo in persona esso si sarebbe potuto considerare apostolico perché fondato sulla testimonianza autentica dell’apostolo raccolta e tramandata oralmente. Discorso analogo per le lettere che oggi consideriamo “deuteropaoline”. Detto questo, è probabile che comunque nell’antichità si attribuissero effettivamente agli autori indicati nella subscriptio i libri del Nuovo Testamento.
Le cose cambiano con la critica biblica moderna, che ha accertato da tempo che tutti gli scritti neotestamentari – ad eccezione di sette delle lettere attribuite a Paolo – sono pseudoepigrafici (anche se non c’è unanimità su Colossesi e II Tessalonicesi, che la maggior parte degli studiosi non ritiene scritte direttamente da Paolo). Sappiamo, cioè che gli autori dei Vangeli non sono gli apostoli Matteo e Giovanni, che Luca, autore del Vangelo e del libro degli Atti, non era uno stretto collaboratore di Paolo, come vuole la tradizione da Ireneo in poi e non pare neanche conoscerne la teologia, che il Marco evangelista difficilmente può essere identificato con il discepolo di Pietro di cui parla sempre la tradizione, che alcune lettere attribuite a Paolo certamente non furono scritte da lui, ma dopo la sua morte da autori che si collocavano in una sorta di “scuola paolina” e quindi le scrissero sotto il nome del loro maestro, che le lettere attribuite a Pietro sono state scritte molto tempo dopo la morte dell’apostolo, sotto il suo nome. Il criterio della “autorità apostolica” non può quindi valere per noi moderni come valeva per la chiesa dei primi secoli. Tuttavia può essere ricondotto, nella sostanza, al secondo criterio fondamentale che guidò l’elaborazione del canone: l’autenticità e la pregnanza del messaggio evangelico contenuto nei vari scritti. Si tratta qui, non del Vangelo come genere letterario, ma del Vangelo come annuncio, ossia del kerygma, per usare la parola greca. Su questo non possiamo non concordare con la chiesa antica: è per noi canonico uno scritto che contenga l’annuncio, il messaggio di “Gesù Cristo morto, crocefisso per noi, per i nostri peccati, e risuscitato per noi, per la nostra salvezza”. In tal senso, possiamo considerare gli scritti neotestamentari “apostolici”, non perché ne siano effettivamente autori gli apostoli o i loro strettissimi collaboratori e discepoli, ma perché contengono l’autentica testimonianza apostolica.
È proprio su questo piano che sorgono le riserve sulla canonicità del VT. Che esso non contenga un racconto della Passione non è infatti problema che riguarda solo la definizione del genere letterario, ma anche e soprattutto il kerygma, l’Evangelo come annuncio. Il VT non annuncia, attraverso il racconto della Passione e quello della Resurrezione, Gesù Cristo morto per i nostri peccati e risorto per la nostra salvezza. Prima ancora di valutarne il contenuto e l’eventuale appartenenza alla corrente gnostica sembrerebbe già questo l’elemento che ne dovrebbe escludere la canonicità. Tuttavia, non bisogna passare sbrigativamente alle conclusioni: intanto, secondo alcune interpretazioni questo Vangelo, sebbene non abbia racconti del Risorto, presupporrebbe la Resurrezione di Cristo e quindi ovviamente anche la sua crocefissione (i vari detti sono attribuiti, nell’incipit del testo, a “Gesù, il Vivente”). Come in altri apocrifi, questi indubbiamente gnostici, il dialogo tra Gesù e i discepoli e l’insegnamento di Gesù avrebbero luogo nel tempo dopo la Resurrezione (un tempo che in questi apocrifi è anche molto dilatato rispetto ai 40 giorni “canonici”)
Certamente, poi, per l’autore o gli autori, Cristo è il Salvatore; il suo è un messaggio di salvezza. Dovremo vedere in che senso, passando finalmente ai contenuti teologici del VT.
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