
Come si diceva, il valore del Vangelo di Tommaso sta anche nel contributo che può dare all’attuale ricerca sul “Gesù storico” (abbiamo già precisato che cosa si deve intendere oggi con l’espressione suddetta, ferma restando l’estrema varietà di posizioni all’interno di questo campo di studi).
Per la verità, dal numero sterminato dei saggi e degli articoli sul Vangelo di Tommaso (VT d’ora in poi) – James H. Charlesworth, trentacinque anni fa, nel suo importante volume su Gesù nel giudaismo del suo tempo ne contava già 400 – risulta che questo apocrifo non sia poi così utilizzato come si potrebbe pensare nella ricerca sul Gesù storico. E questo per le difficoltà che ora esamineremo. Tuttavia, ciò non vuol dire che non apra squarci molto significativi per questa indagine.
Nel confrontare i detti che VT e Vangeli canonici condividono, alcuni studiosi avevano subito notato che in diversi casi le versioni di questi detti che troviamo nel VT sono molto semplici dal punto di vista formale e sembrano prive di elaborazioni e commenti e per questo le avevano ritenute molto vicine alle parole effettivamente pronunciate da Gesù. Il dibattito che ne è seguito e l’approfondimento dello studio dei singoli loghia, anche sul piano comparativo, non consentono più di esprimersi in modo così perentorio. La ricerca dei cosiddetti ipsissima verba Jesu è del resto estremamente problematica. Nessuno oggi può essere in grado di ricostruire la forma esatta in cui certe frasi furono pronunciate da Gesù, considerando, primo, che abbiamo soltanto testi che furono composti diversi decenni dopo la sua morte; secondo, che la prima fase della trasmissione fu esclusivamente orale; terzo, che, come ci mostra proprio la storia del VT, i testi restarono “fluidi” per diverso tempo; quarto – last but not least – che le parole di Gesù ci sono state tramandate in una lingua diversa da quella che egli parlava.
Tuttavia, dando pure per scontata questa premessa, gli studiosi hanno elaborato dei criteri esegetici che consentono di stabilire con una certa approssimazione un grado minore o maggiore di “plausibilità storica” dei vari detti e di individuare con una certa precisione le parole e le frasi che derivano da una rielaborazione più tarda. Recuperare parole molto antiche non significa però che esse corrispondano esattamente a quelle originarie: come vedremo, già negli strati più antichi è presente una certa elaborazione.
Ancora una volta, proprio il VT è molto istruttivo. Esso non contiene solo brevi detti, ma anche parabole. Queste parabole contengono solitamente meno elementi allegorizzanti rispetto alle parallele versioni dei sinottici e quindi si potrebbe ragionevolmente supporre che appartengano a una fase più antica della trasmissione, ma la cosa non è così scontata come si potrebbe credere.
Prendiamo, ad esempio, la parabola dei vignaioli malvagi, loghion 65 del VT; vediamo che essa si conclude con l’uccisione del figlio del padrone della vigna (a parte un’ultima frase della quale dirò tra poco). Nei sinottici, invece, alla fine del racconto, viene descritta la reazione del proprietario – affiderà il campo ad altri – e si dà così implicitamente della parabola una interpretazione allegorizzante: la vigna è Israele, il proprietario è Dio, il figlio è Gesù, i servi inviati prima di lui sono i profeti, i vignaioli assassini sono coloro che hanno respinto e ucciso prima i profeti e poi lo stesso Gesù, sono sacerdoti, scribi e farisei. Nulla di tutto questo si ritrova in Tommaso, ma una laconica conclusione, con la frase – gnosticizzante – “chi ha orecchi per intendere, intenda”. Sorprendentemente, nel Vangelo di Giovanni troviamo la stessa versione della parabola presente nel VT, senza l’aggiunta allegorizzante dei sinottici e con lo stesso detto finale di Tommaso. Se ne può concludere, forse, che erano già presenti, nei primissimi decenni dopo la morte di Gesù, due diverse versioni e rielaborazioni della parabola, quella che sarebbe confluita nei sinottici e quella tommasino-giovannea.
Tuttavia, effettivamente alcuni loghia di Tommaso sembrano risalire a uno strato più antico della tradizione e, per dirla con Andrea Annese (Il Vangelo di Tommaso. Introduzione storico-critica, un testo a cui questa mia sintesi deve molto) hanno valore di “fossile”. La parabola del seminatore, ad esempio (loghion 9), sembrerebbe priva di qualsiasi elaborazione. Rispetto alla scarna versione di Tommaso, nei sinottici, a conclusione del racconto, vi è invece un’ampia ed esplicita spiegazione in chiave allegorica (Mc, 4, 1-20; Mt, 13, 1-23; Lc 8, 4-15). Bisogna però usare prudenza: oggi gli studiosi non escludono affatto che degli elementi allegorizzanti si potessero trovare già negli strati più antichi della tradizione.
Il celebre e piuttosto enigmatico detto di Gesù – “a chi ha verrà dato, ma a chi non ha anche il poco che ha gli sarà preso” – che viene posto da Matteo e Luca, in modo poco chiaro, a conclusione della parabola delle mine (Lc 19 11-27), e da Marco dopo il detto sulla “misura con cui misurate” (Mc 4, 24,25), si trova invece a sé stante in Tommaso (loghion 41). Si può supporre che sia un detto originario, estrapolato da un contesto che non siamo più in grado di ricostruire e inserito dai sinottici in altri contesti. Anche nel VT, peraltro, l’interpretazione può essere data solo dal contesto e in particolare dal loghion che precede (e che fa parte del materiale esclusivo del VT): “Disse Gesù: una vite è stata piantata fuori dal Padre e, non essendo salda, verrà strappata alla radice e distrutta”. (L. 40). Colui “che ha” è dunque chi è “piantato nel Padre”; colui “che non ha” e al quale sarà tolto anche ciò che ha è invece chi dimora fuori dal Padre.
Una delle beatitudini del Sermone del Monte riguarda, come sappiamo, i poveri, ma Matteo fa un’aggiunta: “beati i poveri in spirito” (quanto allo spirito, probabile dativo di relazione in greco). Tommaso riporta invece la stessa versione di Luca, senza l’aggiunta matteana, e si può quindi ritenere che quella di Luca e Tommaso sia la versione più antica.
Un detto originario pare anche il monito a non gettare le perle e ciò che è santo ai cani e ai porci. Qui la diversa elaborazione che ne viene fatta da Matteo, da un lato, e dal VT dall’altro, non riguarda il detto in sé, riportato “fedelmente” da entrambi, ma il contesto in cui va ad inserirsi. In Matteo (7,6), per la verità, non è chiaro il legame con i detti che precedono e con quelli che seguono. Invece in Tommaso (l. 93), proprio la cornice in cui è inserito ne chiarisce il senso, che pare indubbiamente gnosticizzante. In particolare, il loghion che precede afferma: “Cercate e troverete. Ma le cose che mi avete domandate in quei giorni e che io allora non vi ho detto, ora vorrei dirle, ma voi non le cercate”. E il loghion che segue, ribadisce: “Colui che cerca troverà”. Pare di capire che, almeno nella redazione finale, si tratta di una conoscenza, le “perle”, che non deve essere divulgata indiscriminatamente, ma che può e deve essere cercata a suo tempo, nel momento giusto, da chi fa parte della cerchia dei discepoli eletti. In Matteo, invece, il loghion pare oggettivamente “neutralizzato” in questo suo significato. Naturalmente, la collocazione suddetta nel VT e l’interpretazione che ne risulta non è affatto detto che corrispondano al significato originario: possono plausibilmente esser frutto di una redazione successiva gnosticizzante. E questo conferma solo la difficoltà di risalire alle effettive parole del Gesù storico o almeno in prossimità di esse e la pluralità degli usi e delle rielaborazioni dei singoli detti di Gesù.
Ci sono poi i loghia che non hanno alcun riscontro nei sinottici. Si discute su quelli che potrebbero corrispondere, se non alle parole esatte pronunciate da Gesù, quantomeno a uno strato molto antico della tradizione, che i sinottici non avrebbero conosciuto o non avrebbero voluto recepire. È chiaro che questo è uno degli aspetti più “suggestivi” del VT. Bisogna però alquanto deludere queste aspettative: alla fine solo un limitatissimo numero di detti propri ed esclusivi del VT possono candidarsi ad appartenere al “Gesù storico”. Peraltro una parte degli studiosi non condivide l’idea della effettiva antichità neanche di questi pochi detti. Faccio un solo esempio, riguardo a queste possibili diverse interpretazioni: il loghion 58, senza riscontro nei canonici, afferma: “Disse Gesù: beato l’uomo che ha sofferto: egli ha trovato la vita”. Il detto è del tutto compatibile con la testimonianza su Gesù che possediamo già, ma il verbo (abbiamo qui solo la versione copta di Nag Hammadi) può significare anche “affaticarsi, lavorare duramente” e in quest’altro senso potrebbe anche alludere a una ascesi gnostica. In questo caso, il loghion potrebbe appartenere a una fase tardiva.
Una delle parabole che più plausibilmente possono risalire al Gesù storico è poi questa, che riporto senza commenti (la sua interpretazione è molto difficile): “Il regno del Padre è simile a un uomo che voleva uccidere un potente. Egli sguainò la spada a casa propria e la conficcò nel muro per capire se la sua mano sarebbe stata abbastanza forte. Quindi egli uccise il potente” (l. 98).
Il loghion che più probabilmente potrebbe essere annoverato tra i detti “autentici” di Gesù è comunque il seguente: “Disse Gesù: colui che è vicino a me, è vicino al fuoco. E colui che è lontano da me è lontano dal regno” (l. 82). È un detto molto significativo perché ha un evidente contenuto escatologico-apocalittico, ma anche mistico. Ci consente pure di trarre delle conclusioni sul contributo del VT alla ricerca sul Gesù storico. Questo Vangelo da un lato rafforza l’idea, comunque oggi dominante tra le molteplici raffigurazioni proposte per il Gesù storico, secondo cui egli sarebbe stato essenzialmente un profeta escatologico-apocalittico. Dall’altro lato, come scrive Andrea Annese, il VT fornisce interessanti aspetti del Gesù storico che altre fonti, come quelle canoniche, non hanno trasmesso o valorizzato, come la dimensione “mistica”, che è centrale in questo vangelo.
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