
C’è un’intervista di Pasolini, che tra i suoi scritti è quello dove esprime nel modo più folgorante la sua lucidità profetica ed è forse anche quello più urticante per gli intellettuali organici e conformisti. Un’intervista che non a caso ha avuto una pubblicità e una diffusione molto minore di altri suoi interventi. Non fu infatti inserita nelle raccolte di scritti giornalistici subito editi – Lettere luterane e Scritti corsari – da Einaudi e Garzanti. Solo venti anni dopo la morte del poeta, comparve nella raccolta di un editore “minore” (Liberal – Atlantide editoriale, Interviste corsare). E finalmente nel 1999 l’intervista venne inclusa nella edizione dei “Meridiani” dedicata ai Saggi sulla politica e sulla società. Ma intanto si era cristallizzata una certa immagine di Pasolini che non dico sia falsa, ma è quantomeno gravemente incompleta e per questo può prestarsi a manipolazioni e ad usi che ne tradiscono il messaggio, l’impegno civile e in definitiva la memoria.
Eppure, l’intervista in questione avrebbe meritato ben altra risonanza, non fosse altro perché si tratta delle ultime parole pubbliche pronunciate da Pasolini ed esse appaiono quindi come una sorta di testamento morale. Pasolini venne infatti intervistato per “Tuttolibri” del quotidiano “La Stampa”, nel pomeriggio del 1° novembre 1975 dal giovane Furio Colombo, poche ore prima di essere massacrato sul Lido di Ostia.
Oserei dire che le parole di Pasolini in questa intervista, oltre ad avere la consueta e qui ancora più lucida valenza profetica, sono istruttive, sono educative – o potrebbero e dovrebbero esserlo – per un cittadino del 2023.
A Colombo che gli fa notare la sua battaglia solitaria contro la “situazione”, o, per dirla con termine diverso, contro il “sistema”, Pasolini sottolinea innanzitutto il valore della testimonianza, delle minoranze dissidenti e persino dei singoli:
«So che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali».
E subito dopo, Pasolini non può fare a meno di lanciare implicitamente uno strale contro gli intellettuali che non sanno opporre il “rifiuto” alla “situazione”, al “sistema”, ma trincerati dietro il “buonsenso”, si limitano a mormorare nei corridoi (oggi sui social e sui canali della controinformazione o in qualche convegno) o al massimo protestano deviando su questioni secondarie:
«Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo», non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina».
Colombo obietta, però, che i suoi interventi e il suo linguaggio «hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco». Che era un modo più raffinato di esprimere la tradizionale critica all’intellettuale isolato dalle masse, critica che a sua volta era ben più raffinata delle attuali polemiche contro l’intellettuale che “sta sul divano” invece magari di scendere in piazza e dare l’assalto a una immaginaria Bastiglia. Ecco la risposta di Pasolini, che rilancia la polemica indirizzandola contro gli intellettuali che si adagiano in una comoda teoria del complotto per non correre il rischio di cercare da soli la verità:
«Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là».
Ecco, questa intervista non poteva, non doveva avere una larga circolazione perché post mortem bisognava iscrivere Pasolini proprio nella schiera degli “intellettuali complottisti” – con l’enfasi sull’articolo “Io so i nomi” e su quello del “processo alla DC” e tuttavia la contemporanea, lunga disattenzione su Petrolio – per poter dire: “era uno di noi”. E invece Pasolini intendeva dire che questi intellettuali erano funzionali al potere, anche se sfilavano nelle manifestazioni di opposizione. E che era difficile identificarli come tali, perché certo non si presentavano con le vesti del “fascista di Salò”.
«Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?»
Furio Colombo lo incalza e gli chiede che cosa è il potere, dove sta, come lo si stana. La risposta di Pasolini è anche in questo caso esemplare:
«Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono».
Il potere è violenza, che sia questa animata da fini utilitaristici o da presunti ideali, ed è tale nel sistema come nell’anti-sistema. E si tratta della violenza delle spranghe o di quella delle parole e delle false notizie usate come spranghe. Ed esso deriva da uno stesso sistema educativo.
Colombo quindi gli domanda della critica che gli viene spesso rivolta, di “non distinguere politicamente e ideologicamente”, di non distinguere i fascisti dagli antifascisti. Pasolini risponde che legarsi agli schemi ideologici, significa consultare l’orario ferroviario dell’anno prima, voltare la testa altrove, parlare d’altro per non affrontare la verità.
«Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità».
La prima scelta, dice ancora lo scrittore, sarebbe «stare con i deboli».
«Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere».
Inevitabilmente, il discorso scivola poi sulla nostalgia di Pasolini per un mondo perduto (la cosa che gli costava l’accusa da parte dell’ortodossia comunista di intellettuale piccolo-borghese e in fondo reazionario). Ma Pasolini chiarisce di che si tratta e lo fa nel modo che oggi sarebbe più “politicamente scorretto”:
«No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto, nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo».
E si arriva così all’ultimo passaggio, uno dei più emblematici se letto oggi, quello sulla scuola su cui Pasolini aveva lanciato una urticante polemica, affermando provocatoriamente che il miglior provvedimento educativo in Italia sarebbe stato di abolirla per qualche anno. Colombo riassume in modo altrettanto provocatorio: «E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici», dice.
«Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. […] Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e con bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali».
E chiarisce, una volta per tutte:
«Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione».
La conclusione dell’intervista dà ancora i brividi:
«Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi… Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo».
Colombo gli chiede come pensa di evitare questo pericolo, ma scrive nei suoi appunti,
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.
«Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».
Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.
A distanza di quasi mezzo secolo, sul massacro di Pasolini si ha una sola certezza: che non è stato Pelosi o almeno non il solo Pelosi, e che non si è trattato di “una cosa di froci”, come si liquidò sbrigativamente la cosa all’epoca. Conosciamo però i mandanti, i mandanti morali ovviamente. Sono sempre gli stessi, sono quelli che uccidono i profeti e li uccidono per poterli tradire fingendo di essergli fedeli. Infatti, il vero destino dei profeti non è di essere incompresi, ma di essere traditi, innanzitutto dagli intellettuali che poi li celebreranno. Quando va proprio male, il loro destino è di essere massacrati e conta poco chi sia stato, perchè è chiaro il movente morale: bisogna uccidere quel loro sconfinato e inquietante amore per la verità. Solo così si può continuare a «cambiare discorso per non affrontare la verità».
A chi abbia ancora il coraggio di ascoltarlo seriamente, Pasolini ci lascia con queste sue ultime parole, un monito sul totalitarismo latente – liscio, levigato e confortevole, avrebbe detto Marcuse – che incombe su di noi, quello che aveva portato alla “scomparsa delle lucciole” e che ora vuole toglierci definitivamente la libertà con il pretesto di ridarcele (la “transizione green”). Eccolo, il monito di Pasolini:
Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.
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