
Una premessa. Sono convinto che Dio in Gesù Cristo si sia voluto rivelare innanzitutto ai semplici e abbia voluto confutare la “sapienza del mondo”. Tuttavia, non tutti sono “semplici” ed anzi pochi hanno il dono di una autentica semplicità. Chi non ce l’ha ed ha magari altri doni non fa certo male a ricercare la via della conoscenza e, se è credente, sente pure imperioso l’imperativo della fides quaerens intellectum, della fede che cerca, desidera, brama l’intelligenza della fede stessa, che cioè vuol comprendere ciò a cui già crede (Anselmo d’Aosta).
Purtroppo, molto più frequentemente, si vede oggi all’opera non già l’intellectum fidei, ma una confusa ricerca di generica “spiritualità” che attinge ad eco volgarizzate e banalizzate di varie tradizioni sapienziali – quella magico-ermetica, quella di talune religioni orientali, quella della Kabbalah. Occorrerebbe capire che si tratta di saperi “iniziatici”, che richiedono un lungo, difficile, faticoso percorso, con anni, anzi decenni di studio e di esercizio e che avvicinarsi a queste cose in modo superficiale, sulla scia magari di qualche guru da social, non è tanto inutile quanto pericoloso.
A questo proposito, vorrei riferire la “storia dei quattro rabbini”, magistralmente citata da Gershom Scholem (La Kabalah e il suo simbolismo). Si tratta, in origine, di una famosa storia del Talmud, che racconta dei quattro grandi maestri che nel secolo II si occuparono di studi esoterici, per entrare in Paradiso. I quattro si chiamavano rabbi Akiba, Ben Zoma, Ben Azzai e Aher. La storia dice: «l’uno vide e morì, il secondo vide e perse il senno, il terzo isterilì le giovani piantagioni [ossia traviò i giovani]. Solo rabbi Akiba entro sano e uscì sano».
La storia viene ripresa e rielaborata in ambito cabalistico, quando si diffonde il motivo dei “quattro sensi della Torah”. Gli studiosi discutono questa dottrina cabalistica non sia stata influenzata da quella cristiana, molto nota nel Medio Evo, dei quattro sensi della Bibbia (letterale, allegorico, etico e anagogico): Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quod tendas anagogia).
In ogni caso, Moshe de Leon, che secondo Scholem è autore fra il 1280 e il 1286 della parte centrale della più importante opera cabalistica, lo Zohar (“Libro dello Splendore”)[1], scrisse, prima del 1290, un’altra opera cabalistica, purtroppo perduta e intitolata Pardès (Paradiso), nella quale utilizzava propria la storia dei quattro rabbini per un gioco di parole esoterico. Pardès allude, infatti, ai quattro sensi della Torah. P (pe)sta per Peshat, il senso letterale, R (res)per Remez, il senso allegorico, D (dalet)per Derasha, l’interpretazione talmudica e haggadica (la parte legale e quella narrativa della Torah), S (sin) sta per Sod, il significato mistico. Questi quattro strati e livelli di senso della Torah vengono a volte ridefiniti, lasciando comunque al primo e all’ultimo livello, rispettivamente, il senso letterale e quello mistico, ma talora distinguendo lo strato haggadico, ossia le storie, le narrazioni contenute nella Torah (e quindi anche nel Pentateuco della Bibbia cristiana), da quello halachico, ossia le norme e la loro l’interpretazione talmudica (ciò che leggiamo, ad esempio nel libro del Levitico e la sterminata letteratura rabbinica in proposito).
Qualche anno dopo il Pardés, sempre secondo la ricostruzione di Scholem, un anonimo della cerchia di Moshe de Leon componeva l’ultima parte dello Zohar, che contiene, tra l’altro, delle interpretazioni alla prima sezione della Torah (ossia i primi cinque capitoli di Genesi). In particolare, nel commento a Genesi 2,10 sgg., sui quattro fiumi dell’Eden, la vecchia storia talmudica dei quattro dotti viene rielaborata in modo significativo.
Del primo dotto si dice che entrò nel fiume Pishon – interpretato come pì shoné halakhòt – “una bocca che impara il senso preciso della Halakhah”. Il senso “preciso” significa qui il senso letterale. Questo primo dotto è colui del quale nella storia talmudica si dice che “vide e morì”. Chi si ferma al senso letterale, dunque, muore (e non è necessario intendere la morte come morte fisica). E di lui non si dice altro.
Il secondo dotto entrò nel fiume Gihon e questo nome viene riferito all’allegoria, che può a sua volta intendersi sia come il senso filosofico del testo, sia come lo strato narrativo: in un altro passo dello Zohar, il termine Haggadah – racconto – viene sostituito dal nuovo concetto di remez, che nell’ebraico medioevale è il termine tecnico per indicare l’allegoria. Pertanto, chi procede oltre il senso letterale, ma si ferma a quello allegorico-filosofico o all’aspetto narrativo è come il secondo dotto della storia talmudica, quello che vede e perde il senno.
Il terzo entrò nel fiume Hiddekel, il cui nome è interpretato con le parole had e kal, acuto e svelto, a indicare l’acume e l’agilità – dice Scholem – della interpretazione talmudica, derashah. E’ il senso legale, normativo, ossia la corretta prassi da seguire. Ma chi procede oltre i primi due sensi, giunge all’ortoprassi, ma qui si ferma è come il terzo dotto della storia, del quale si dice che traviò le nuove generazioni.
Il quarto, infine,m entrò nel fiume Eufrate, che viene legato all’albero della vita e da cui sgorga il seme stesso della vita.
Dunque, dei quattro dotti che volevano entrare in Paradiso, Aher morì, Ben Azzai e Ben Zoma andarono oltre l’abito o l’involucro esterno della Torah, ma si irretirono e si persero, mentre solo rabbi Akiba si spinse fino al midollo della Torah entrò sano dal Paradiso, dallo studio, dal percorso spirituale, e sano e salvo ne uscì.
È un monito da considerare con molta attenzione.
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[1] Bisogna, tuttavia, precisare che l’origine, la datazione e la paternità dello Zohar sono oscuri e controversi ed oggetto di un’aspra polemica fra studiosi cabbalisti e anticabbalisti. Lo Zohar è scritto in lingua aramaica – con alcune parti in ebraico – e secondo la convenzione dei midrashim si presenta come la trascrizione delle conversazioni dei dottori del II-III secolo e.v.. La polemica anticabbalistica, fin dal tardo medioevo, lo considera però un “falso” di epoca molto posteriore. Su questo argomento esiste una letteratura sterminata. La tesi prevalente fra gli studiosi estranei alla corrente mistico-cabbalistica e che adottano la critica storico-filologica è che il libro nasca negli ambienti sefarditi della Spagna della fine del XIII secolo, anche se l’attribuzione a Moshe de Leon, sostenuta da Scholem, è oggi messa in discussione.