La morte di Ratzinger ha acceso l’interesse anche per la sua teologia: se ne parla molto, conoscendola molto poco. Sono apparsi articoli e commenti piuttosto superficiali sulla “razionalità della fede” sostenuta da Ratzinger e sulla sua battaglia contro il relativismo culturale.
Illuminante per farsi un’idea più precisa del Ratzinger teologo senza dover affrontare necessariamente scritti più lunghi e impegnativi è il dibattito che si svolse sulla rivista “Micromega” nei primi anni del millennio – prima e dopo l’ascesa del cardinale bavarese al soglio pontificio – tra lui e Flores D’Arcais. Anni fa scrissi una relazione in proposito per la Facoltà Valdese di Teologia, nella quale studiavo, per delineare un terzo punto di vista sul problema del rapporto tra ragione e fede, rispetto a quello sostenuto da Flores D’Arcais, espressione di una ragione illuministica atea incapace di comprendere il punto di vista della fede e rispetto alla “teologia naturale” di Ratzinger, piuttosto spaesata nel mondo moderno, come del resto le vicende successive del suo pontificato hanno anche drammaticamente mostrato. Riprendo qualche passaggio di quella relazione.
Esiste una “terza via” fra quella della ragione illuministica, i cui frutti avvelenati – presagiti dai filosofi della Scuola di Francoforte – sono sempre più chiaramente e drammaticamente visibili oggi e una anacronistica teologia naturale di impianto tomistico come quella di Ratzinger, esiste una terza via tra assolutismo e relativismo dei valori? A mio avviso, sì, ed è quella indicata non solo da taluni importanti, “grandi” teologhi, come Jüngel, ma anche dalla fisica quantistica e da scienziati come Heisenberg.
Occorre partire da una ridefinizione dei concetti di fede, di ragione e di verità, i quali, nel loro uso più comune risultano inservibili al pensiero cristiano ed hanno anzi implicazioni addirittura distruttive per la fede cristiana.
Dato che il punto di aggancio biblico di questa riflessione è Paolo, prima ancora di definire preliminarmente questi concetti, mi sembra utile qualche osservazione sul riferimento, a mio avviso non corretto sul piano filologico e teologico, che Flores fa a Paolo e sulla replica, anch’essa discutibile, di Ratzinger. Flores attribuisce a Paolo una posizione del tipo credo quia absurdum. La tesi è doppiamente discutibile: 1) per il fatto che una tale posizione sia attribuita a Paolo e 2) perché essa viene letta come documento della irrazionalità della fede cristiana e di una presunta antitesi fede/ragione nel cristianesimo. Dall’altra parte Ratzinger, mentre fa notare, giustamente, che in Paolo non vi è affatto questa irrazionalità assoluta della fede e che il pensiero di Paolo è razionalmente strutturato, sostiene che in Paolo vi sia un piano che va “oltre” la ragione. In sostanza Ratzinger inquadra Paolo nelle categorie e nel sistema della cosiddetta teologia razionale o naturale, di derivazione tomistica, per cui la rivelazione e la fede si inseriscono sul terreno preparato dalla ragione e, da un lato, “dilatano” questo territorio, dall’altro interloquiscono con la ragione, che consente loro di articolarne i contenuti. In tal modo, per Ratzinger, il pensiero cristiano, Paolo compreso, si sposa felicemente con la tradizione filosofica, anzitutto greca, opportunamente “purificata”, che anzi sarebbe sua parte integrante.
Mi sembra di poter dire che del vero Paolo ci sia poco, tanto in Flores quanto nello stesso Ratzinger, ma anche per questo le loro interpretazioni sono assai significative e quasi emblematiche delle rispettive tesi. L’interpretazione più corretta e anche più proficua nel dialogo, critico ma imprescindibile, con il mondo moderno è invece quella che, contro Flores, riconosce l’articolazione razionale del pensiero di Paolo, ma, contro Ratzinger, non elude la “follia della croce” e la tensione con la filosofia greca. Si tratta, quindi, di una forma di razionalità, in Paolo e nel cristianesimo, diversa da quella a cui pensano sia Flores – la ragione illuministica, strumentale finita, empirica – che Ratzinger – la ragione metafisica e assoluta – e che si muove anche sul piano del paradosso (questo è anche il senso più vero del credo quia absurdum).
Riformulare i concetti di fede e ragione
Questa critica alle interpretazioni paoline di Flores e Ratzinger ci consente forse già di intravedere il centro della questione e di riformulare i concetti di fede e di ragione.
Credere, nella vulgata comune, significa accettare qualcosa che non si può dimostrare, che non si può conoscere con certezza; è una sorta di resa dell’intelletto: non potendo sapere, mi limito a credere. Questa accezione del termine ha origini antiche e autorevoli: già Platone considera la pistis un grado dell’opinione, della doxa, che è superata a sua volta dall’episteme, che è la vera conoscenza. La moderna cultura empiristica rovescia, da un certo punto di vista, l’impostazione di Platone – per il quale la fede è insicura e inaffidabile perché riguarda le realtà sensibili, mentre nel linguaggio comune legato alla cultura empirista è l’esatto contrario – ma ne condivide l’aspetto sostanziale e decisivo: la fede è riportata al campo noetico e cognitivo, lo stesso della ragione, e su questo piano essa risulta perdente, rispetto alla ragione. Quest’ultima, infatti, su questo piano, è criticamente o sperimentalmente controllabile, mentre alla fede, intesa come un diverso modo di conoscenza, resta sempre un che di arbitrario.
Compito fondamentale della teologia è allora quello di affermare che la fede, cristianamente intesa, non è un modo di conoscenza, alternativo e inevitabilmente inferiore alla ragione, e che la fede può essere collocata su un piano diverso da quello cognitivo. Infatti, oltre al “credere che” esiste, pure nel linguaggio comune, il “credere a” e il “credere in”. Quest’ultimo è anche l’uso frequente del verbo pisteuein nel Nuovo Testamento, pisteuein eis, che indica anche un itinerario, un cammino e allude a una relazione personale, di fiducia. Chi crede, nella fede cristiana, non crede innanzitutto a una qualche idea di Dio o a un sistema dottrinario, ma crede ad una promessa, fondata su una Parola che lo ha raggiunto e su una relazione di tipo personale con Dio, e questa Parola lo pone in cammino, per questa fede si pone in cammino. Questo tipo di esperienza, che è tipica del credente, non può essere, evidentemente, dedotta, né spiegata razionalmente, ma può essere benissimo descritta razionalmente. Il compito primario della teologia è proprio quello di fornire una descrizione il più possibile plausibile, coerente e profonda di questa esperienza di fede e, più in generale, della realtà come si presenta dal punto di vista della fede. Il dualismo non è quello che vorrebbe Flores – fede-ragione – ma è piuttosto tra fede e incredulità: la ragione può essere atea o credente, senza cessare di essere ragione, può articolare il punto di vista della fede o quello dell’incredulità. Ciò che invece non può fare è proprio ciò che vorrebbe Flores: attaccare e demolire il punto di vista della fede, inchiodandola ad una presunta irrazionalità.
Difendere il pensiero cristiano dalla critica demolitrice della ragione illuministica e atea rende però necessario il confronto con questa ragione: l’opposizione ad essa di un concetto metafisico della ragione, come fa Ratzinger, oltre ad essere evidentemente anacronistico, espone il pensiero cristiano proprio agli attacchi più insidiosi della ragione moderna. Ratzinger, infatti, pare muoversi in linea con quel cristianesimo che da secoli cerca disperatamente di difendere la “necessità” razionale dell’idea di Dio. In tal modo, non rende un buon servizio al punto di vista cristiano. Flores, infatti, ha facile gioco nel dimostrare come l’ipotesi Dio non sia necessaria per interpretare la realtà, e può vantare i risultati raggiunti da una visione del mondo etsi Deus non daretur. La ragione metafisica di Ratzinger viene in realtà sconfitta proprio sul piano che le era più congeniale quello della interpretazione globale del mondo. Qui viene anche smascherata la vulgata comune sul prefetto della Congregazione della fede divenuto pontefice: teologo raffinato e portatore di un pensiero “forte”, benché reazionario. Il pensiero “forte” di Ratzinger è in realtà la solita sintesi tomistica, che sembra piuttosto spaesata nel XXI secolo. Di forte vi è invece sicuramente l’intenzione, lucidamente individuata da Flores, di riprendere la tradizione del Sillabo non per una ritirata strategica dalla contemporaneità, ma per “colonizzarla”. E’ però discutibile che questo progetto di “Reconquista” rappresenti, come ritiene Flores, un oblio del Vaticano II, perché esso potrebbe intendersi anche come sviluppo, certo su una linea radicalmente conservatrice, di quello stesso Concilio, interpretato, alla Subilia (un teologo valdese), non come “svolta” nella tradizione cattolica ma come “aggiornamento” di questa stessa tradizione.
Il problema più grave è che Ratzinger, nel mentre sottovaluta la portata della critica illuministica e atea, non tiene conto nemmeno delle critiche che la teologia, non solo protestante, ha mosso alla ragione metafisica, all’’idea della necessità di Dio, alla sua “ellenizzazione” (il concetto di impassibilità, ma anche la discussione sull’onnipotenza). Sembra ignorare che la parola della croce, come è annunciata da Paolo, non è compatibile con la ragione metafisica ed è follia nell’ottica della filosofia greca.
Flores, dal canto suo, dopo aver attaccato, fondatamente la pretesa della necessità di Dio compie un passaggio indebito: dalla non necessarietà, un dato da tempo acquisito da tanta teologia contemporanea – basti pensare a Bonhoeffer, e con buona pace di Ratzinger – alla arbitrarietà della ipotesi Dio. Ciò è falso non solo sul piano logico, ma anche sul piano storico, come Flores dovrebbe pur sapere visto che ricorda come la formula del etsi Deus non daretur risalga al calvinista Grozio, che certo non la intendeva come professione di ateismo! Come ha mostrato Jungel, uno dei più importanti teologi del Novecento, al di là del piano della necessità non vi è solo il piano dell’arbitrarietà. Non vi è solo ciò che è “meno” che necessario, ma vi è ciò che è “più” che necessario. Vi è quindi un piano ontologico e noetico ulteriore rispetto a quello della necessità, che è quello della Grazia, della libertà incondizionata, del primato della possibilità. Questo piano non si impone alla ragione, come quello della necessità, ma si può ben proporre ad essa. Per inciso, faccio rilevare che questo piano della possibilità e quindi della libertà è quello su cui sembrano muoversi le “particelle” della fisica quantistica contemporanea, in una seconda rivoluzione scientifica che ha distrutto l’interpretazione del mondo della ragione illuministica e materialistica di Flores.
In tal modo, la teologia può avvalersi di un solido apparato concettuale nel difendere la ragionevolezza del pensiero cristiano, apparato ben diverso, da quello piuttosto anacronistico di Ratzinger, anche perché radicato nella contemporaneità. La teologia può anche rispondere alle argomentazioni atee, contrattaccando. Il dualismo, come abbiamo visto, non è tra fede e ragione, ma tra fede e incredulità, entrambe suscettibili di articolazione razionale. Ma esiste poi davvero l’incredulità? Non è magari costitutivamente credente la coscienza umana? Quest’ultima tesi è un dato biblico ed è certezza per il fedele – nella Bibbia non vi è mai antitesi tra fede e incredulità, ma sempre tra fede nel vero e unico Dio o fede in qualche idolo – ma può e forse deve interrogare anche l’ateo: il rifiuto della fede in Dio non cela forse la fede in uno dei tanti idoli di questo mondo? È possibile, da atei, evitare l’idolatria? E, in altri termini, il rigetto della teonomia fonda senz’altro l’autonomia o cela una diversa eteronomia?
La questione della verità e dei valori
Sulla questione della verità e su quella dei valori occorre analogamente proporre una “terza via” cristiana fra il relativismo alla Flores e l’assolutismo alla Ratzinger. Flores contesta, in modo pienamente condivisibile l’idea di Ratzinger di una verità naturale su cui si fonderebbe una morale altrettanto naturale, con valori inviolabili (tra i quali il rispetto della vita, intesa in senso meramente biologico): una morale universale e naturale non è mai esistita e quella proposta da Ratzinger non è altro che una costruzione ideologica cattolica spacciata per morale naturale, nel tentativo anacronistico di imporla alle società secolarizzate e agli stati laici. In un’ottica credente, poi, a Ratzinger occorre anche obiettare che la Verità assoluta del Dio unico è rivelata attraverso testimonianze umane e storiche e dunque è una verità plurale che si offre da una molteplicità di prospettive. Nessuna di queste prospettive può pretendere di esaurire l’inesauribile profondità dell’oggetto in questione e l’assolutizzazione di una singola prospettiva conduce direttamente all’idolatria. Il riferimento a questa Verità assoluta è naturalmente imprescindibile per un cristiano, e questo segna una ovvia differenza rispetto alla posizione di un ateo come Flores, ma non è vero che il rifiuto di questo riferimento debba sfociare necessariamente nel nichilismo, come tende a pensare Ratzinger. L’errore di Flores, piuttosto, sta nel ritenere che solo sul relativismo dei valori si possano fondare la libertà moderna e la laicità dello stato e della società. Come Ratzinger identifica semplicisticamente relativismo e nichilismo, così, specularmente, Flores confonde o identifica il relativismo con il pluralismo. Quest’ultimo, infatti, può tranquillamente mantenere il riferimento a una Verità assoluta che poi viene declinata, umanamente e storicamente, in una pluralità di prospettive, ed anzi questo è proprio un dato biblico e un elemento costitutivo e fondante del cristianesimo.
Il mondo contemporaneo è caratterizzato dall’idea che Dio non sia “necessario”, che si possa pensare il mondo etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, e soprattutto che si possa vivere e si possa agire, anche eticamente, facendo a meno di Dio. Questa idea è insormontabile ed è sterile il tentativo di certi ambienti religiosi di riaffermare la necessità di Dio. Ciò porta solo, come scriveva Bonhoeffer, alla nozione del “Dio tappabuchi”, un Dio che si va a rifugiare negli ambiti sempre più ristretti che la scienza non riesce ad illuminare o un Dio che possiamo incontrare solo nelle situazioni-limite della nostra esistenza, come la morte o la sofferenza estrema. D’altra parte, è altrettanto inaccettabile il tentativo di certi ambienti positivisti e scientisti di trasformare la non necessità di Dio nella dimostrazione della sua non esistenza ed è indebito e arbitrario – innanzitutto logicamente – il passaggio dalla non necessità alla non pensabilità. Che Dio non sia necessario non vuol dire che sia anche impensabile e indicibile. Che Dio non si possa e non si debba “imporre” alla ragione umana, non vuol dire che non si possa neanche proporre. Mi pare che sia invece importantissimo, sia per la scienza sia naturalmente per la teologia, individuare un orizzonte di pensiero – un campo logico e noetico – che consenta di “pensare Dio”. In questo campo si potrebbe svolgere il dialogo fra scienza e teologia. Alcuni dei più grandi scienziati moderni – come Heisenberg, Bohr, Pauli e sicuramente lo stesso Majorana – hanno appunto praticato, da scienziati, questo dialogo, hanno pensato l’universo, da scienziati, in un orizzonte teologico.
Questo orizzonte di pensiero deve sfuggire alla dicotomia fra “il caso e la necessità”. Come ha mostrato il grande teologo Jüngel, e come forse ci induce a pensare la fisica quantistica se cerchiamo di elaborarla in chiave filosofica per raggiungere una visione del mondo, al di là del piano della necessità non vi è solo il piano dell’arbitrarietà e del caso. Non vi è solo ciò che è “meno” che necessario, ma vi è anche ciò che è “più” che necessario. Vi è quindi un piano ontologico e noetico ulteriore rispetto a quello della necessità, che è quello della possibilità e quindi della libertà. È un piano che tutti noi sperimentiamo quotidianamente nella nostra esistenza quando abbiamo a che fare con l’agire morale, con il rischio dell’azione e con la responsabilità che essa comporta. Ed è il campo nel quale appunto può essere pensato Dio e può essere pensata la relazione dell’uomo con Dio, come grazia da un lato e fede dall’altro.
Conclusione
Per un credente oggi il problema è sempre quello che poneva Bonhoeffer nel carcere di Tegel: come vivere nel “mondo senza Dio, dinanzi a Dio e con Dio”. A questo problema sfugge non solo, come è ovvio, la posizione atea e materialistica di Flores, ma anche la presunta grande teologia naturale di Ratzinger che alla fine ha oggettivamente perduto la sua battaglia culturale, come anche le sue dimissioni sembrano dire. Quelle dimissioni che restano invece una straordinaria testimonianza, nel rifiuto che sembrano opporre alla deriva sempre più rovinosa a cui espone il mondo proprio quella ragione illuministica celebrata da Flores, nell’affidarsi, non al proprio potere pontificale e neanche più alla propria elaborazione teologica, ma alla signoria di Colui che regna su un piano ben diverso e superiore rispetto a quello di una necessità razionale concepita in termini naturali ed umani.
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