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15 OTTOBRE 2021: UNA RESISTENZA MAI NATA. LA PAROLA A UNO STORICO DEL FUTURO

Che cosa potrà scrivere di quanto è avvenuto tra il 2020 e il 2022, fra venti, trenta o cinquanta anni, uno storico che avrà conservato onestà intellettuale e non sarà stato “transumanizzato”?

Proviamo a immaginarlo.

 Scriverà che i governi Conte e Draghi, usando il pretesto di una “emergenza pandemica”, limitarono, compressero o cancellarono i diritti e le libertà tutelati da ben tredici articoli della Costituzione e che questa politica liberticida fu applaudita o incoraggiata da una parte della popolazione, fu subita passivamente da una parte ancora più ampia, sicuramente maggioritaria. E che una minoranza, invece, protestò, cercò di opporsi, senza ottenere alcun risultato. Si trattò, quindi, continuerà lo storico del futuro, di un passaggio epocale, la fine della democrazia liberale, costituzionale e parlamentare da tempo in crisi. E si chiederà come questo cambiamento di regime politico fosse avvenuto così agevolmente, senza una vera resistenza. Lo storico individuerà una data cruciale: il 15 ottobre 2021.

Ecco quelle che saranno, più o meno, le sue parole.

Quel quindici ottobre fu il solo momento in cui una azione di resistenza, di disobbedienza civile di massa avrebbe potuto far vacillare il regime, avrebbe potuto fermare quel carro armato che stava stritolando diritti e libertà. Fu un’occasione perduta e quel giorno abortì la nascente opposizione politica. Una opposizione che non poteva essere costruita prima di ottobre e che non sarebbe più nata dopo, nonostante illusioni e proclami.

Prima c’era stata la fase dei lock down, nella quale l’avanguardia della protesta dovevano essere i ceti medi – esercenti, commercianti, piccole imprese – maggiormente colpiti dalla misura. Dall’altra parte, c’era però una vasta area sociale – dipendenti pubblici e privati, parte del lavoro autonomo e l’indotto dei colossi del web – che non solo non venivano danneggiati dalle chiusure, ma talora ne traevano anche dei vantaggi. I danneggiati, d’altra parte, non andarono al di là di qualche manifestazione di piazza, di embrioni di movimenti – “io apro” – mai veramente partiti, e si accontentarono dei sussidi statali o della loro promessa, in attesa delle “riaperture”. Accettarono in fondo la narrazione governativa: “chiudiamo per poter riaprire in sicurezza”.

Il governo Draghi, insediatosi a inizio 2021 segnava un decisivo salto di qualità nella stretta autoritaria, operando però con accortezza. I primi ad essere colpiti furono i sanitari, con il DL 44 del 1° aprile 2021, sul quale si sarebbero poi innestati gli obblighi vaccinali per le diverse categorie. Pochissimi capirono ciò che stava per accadere, la categoria dei sanitari restò isolata, i sanitari non vaccinati isolati nella categoria e anche oggettivamente frammentati, in quanto le sospensioni in pochissimi casi furono immediate e negli altri casi arrivarono a chi dopo tre mesi, a chi dopo sei, a chi dopo un anno e qualcuno non fu mai sospeso.

Pochi giorni dopo fu istituito il Green Pass, anticipandone anche l’entrata in vigore in Europa, ma già mostrando che nel nostro paese se ne voleva fare un uso ben più ampio, non limitato ai viaggi. Ma fino alla seconda metà di luglio, nessuno o quasi prese sul serio la cosa, visto che il Green Pass era prescritto solo per matrimoni e comunioni.

La campana a morte per la libertà suonò a fine luglio, con la famosa conferenza stampa nella quale Draghi affermò, contro ogni “evidenza scientifica” che il Green Pass era “la garanzia di trovarsi fra persone non contagiose” e che “non ti vaccini, ti contagi e muori; non ti vaccini, ti contagi e fai morire”. Ma il governo, al di là di queste esternazioni, procedette con abilità: attirò l’attenzione, alla vigilia del grande esodo vacanziero, sull’imposizione dello strumento di controllo in bar, ristoranti e alberghi, guadagnò l’adesione alla vaccinazione di massa di folle giovanili più ansiose di salvare le vacanze e la movida che il nonno, e sferrò di soppiatto il colpo più importante, perché era il preludio alla vera offensiva finale: il Green Pass fu reso obbligatorio nelle scuole, dal 1° settembre. Pochi, al di fuori del personale scolastico non vaccinato – una piccola minoranza – ci fecero caso. Pochi capirono che presto la misura sarebbe stata estesa a tutti i lavoratori, come accadde appunto il 15 ottobre.

E arrivò quindi il 15 ottobre. Il governo cambiò improvvisamente tattica. Fino ad allora procedeva con gradualità e colpendo singole categorie o settori di attività, in modo da isolarle o isolarli. Con il nuovo DL, che istituiva l’obbligo di Green Pass per tutti i lavoratori, pubblici e privati, si arrischiò a sparare nel mucchio, a colpire tutti insieme. E, con i grandi sindacati e i sindacati di categoria, schierati a sostegno della sua politica, offrì persino ai lavoratori l’arma di uno sciopero surrettizio: non esibendo il Green Pass si aveva l’”assenza ingiustificata” con trattenuta della retribuzione giornaliera e senza conseguenze disciplinari. Le voci politicamente più intelligenti compresero subito che la protesta avrebbe dovuto utilizzare quella occasione ed ebbero anche una certa eco nei social e nei canali alternative, ma ad esse si sovrapposero altre voci che, come vedremo, finirono per danneggiare l’azione di resistenza, che di fatto fallì. Le astensioni dal lavoro furono pochissime. L’unica manifestazione di piazza che aveva messo in difficoltà il regime, quella di Trieste, fu presto incanalata in forme innocue. Le chances della resistenza collettiva finirono qui, nonostante l’illusione generata dalle manifestazioni del sabato pomeriggio, in varie città e innanzitutto a Milano. Il governo poté procedere nel suo piano. Lo step successivo ci fu alla vigilia delle festività natalizie e si ripeté  lo schema seguito a luglio, del duplice decreto. Un primo provvedimento, quello che attirò l’attenzione generale, introducendo il “Green Pass rafforzato”, escludeva in sostanza dalla vita civile i non vaccinati che non potevano più accedere ad alcun luogo pubblico, neanche con il tampone; facevano eccezione solo i negozi di generi alimentari e le farmacie, con banche o posta (ma in queste ultime era comunque necessario il Green Pass base). Meno eco ebbe, nonostante gli inquietanti precedenti, il prolungamento dell’obbligo vaccinale per i sanitari e l’estensione del suddetto obbligo ad altre due categorie: il personale scolastico e le forze dell’ordine. Tra il 20 dicembre e i primi di gennaio si ebbero così le sospensioni dal lavoro dei renitenti al vaccino, a scuola e nelle caserme. Alla fine del periodo festivo, il governo annunciò puntualmente il passo successivo: l’obbligo vaccinale per tutti gli over 50 e il “Green Pass rafforzato” – equivalente di fatto all’obbligo – per accedere a tutti i luoghi di lavoro, sempre per gli ultracinquantenni. La misura era destinata ad entrare in vigore il 15 febbraio e così accadde. Ma se il 15 ottobre vi era stato un conato di resistenza, quantomeno nelle attese – nelle speranze o nelle paure, a seconda del punto di vista – la data del 15 febbraio sopraggiunse senza alcun sussulto da parte dei non vaccinati, che pure erano ancora numerosi.

Sono significativi i numeri della categoria che era stata scelta da apripista, gli insegnanti. Tale categoria aveva fatto registrare fin da subito un altissimo tasso di adesione alla campagna vaccinale, ma all’inizio dell’anno scolastico 2021-2022 restavano ancora circa 90.000 non vaccinati (poco più del 10%). L’obbligo di tampone aveva poi quasi dimezzato questa cifra, ma a fine novembre, al momento del decreto che istituiva l’obbligo vaccinale, restavano comunque 50.000 insegnanti non vaccinati. Una situazione che sarebbe stata certamente difficile da gestire, se buona parte di loro fosse stata sospesa e magari avesse fatto ricorso al giudice del lavoro. Alla fine i sospesi furono solo 3800 e i ricorsi presumibilmente poche centinaia, forse solo alcune decine. Nelle altre categorie, le percentuali non furono molto diverse.

Che cosa era accaduto degli intenti, dele dichiarazioni di “resistenza ad oltranza”? Come valutare questo piegarsi alla misura vessatoria? Le categorie di giudizio morale non sono sufficienti e non sono neanche adeguate alla valutazione storica. Lo storico – proprio come colui che ha, per dirla con Weber, la “vocazione alla politica” – deve tener conto dei limiti, delle debolezze, dei “difetti” delle masse, dell’”uomo comune”. Una resistenza di massa, anche relativamente rischiosa e costosa, è anche possibile (forse persino in una epoca come quella attuale nella quale non si è più abituati né al sacrificio immediato per obiettivi futuri, né alle lotte collettive) ma non si protrae mai a lungo e se non si riescono ad ottenere risultati concreti si spegne subito.

La partita quindi si decise proprio il 15 ottobre. L’unica strategia che aveva qualche speranza era quella di concentrare la protesta in singole giornate– con manifestazioni di piazza, certo, ma soprattutto con astensioni dal lavoro e in particolare nei nodi cruciali della produzione e dei servizi – a partire proprio dal 15 ottobre. Una buona parte di responsabilità nella debacle del 15 ottobre la ebbero i fautori di un estremismo parolaio e politicamente immaturo, coloro che lanciavano proclami di “resistenza ad oltranza”. Uno “sciopero generale ad oltranza” fu proclamato ad esempio dall’unico piccolo sindacato che si era schierato contro il Green Pass. Le adesioni furono irrilevanti. La prospettiva di un lungo periodo di astensione dal lavoro, con conseguente perdita della paga, scoraggiò i “tiepidi”, l’”area grigia” che invece è sempre essenziale saper coinvolgere nella lotta. E costoro per non rischiare la trattenuta stipendiale di più giorni o di settimane, posti di fronte al falso dilemma “protesta ad oltranza o resa” finirono per andare al lavoro anche il 15 o si assentarono con il congedo per ferie o malattia – anticipazione del rovinoso “Green Pass da guarigione” – e inutile come segno di resistenza e protesta. Ai meno motivati al sacrificio si presentò subito una alternativa, più comoda, di lotta: le manifestazioni di piazza del sabato pomeriggio. Se non che, quelle manifestazioni avrebbero avuto un senso – era l’abc, ormai dimenticato, di tutte le lotte passate dei lavoratori – se avessero fatto da sponda allo sciopero – ora nella forma dell’“assenza ingiustificata senza conseguenze disciplinari” – e si fossero concentrate in singole giornate. Il sabato pomeriggio – come poi mostrarono gli sviluppi già sommariamente ricostruiti – diventavano solo l’occasione per sfogare una pur sacrosanta indignazione e sentirsi parte attiva di un movimento collettivo che in realtà sul piano politico non c’era, non era mai nato. Le piazze furono alla fine il trampolino di lancio delle liste e delle candidature di settembre e nulla più e le elezioni un salto nel vuoto politico.

Il governo fronteggiò le piazze con una strategia duttile. La manifestazione del porto di Trieste, con migliaia di persone giunte da tutta Italia a solidarizzare con lo sciopero dei portuali contro l’adozione del Green Pass, fu repressa in modo brutale, con l’uso di idranti e lacrimogeni. Il blocco resse solo per un paio d’ore, dopo di che i manifestanti, guidati da Stefano Puzzer, furono dirottati a Piazza Unità d’Italia dove la protesta, ormai neutralizzata, continuò per qualche giorno, fra slogan  autocelebrativi a imitazione degli ultras delle curve calcistiche (“la gente come noi non molla mai”) comizi dei leader di vari coordinamenti e associazioni, performances di artisti di strada ed espressioni di una sincretistica spiritualità, con i gruppi che recitavano il rosario accanto a quelli dell’ “om” buddista. L’intervento spietato delle forze dell’ordine al varco portuale aveva intanto mostrato come l’unica cosa che il governo temeva era il blocco di nodi produttivi e commerciali strategici, come il terminal petrolifero di Trieste. Ma nessuno dei leader delle piazze osò proporre un nuovo tentativo del genere. La mobilitazione delle piazze continuò fino a Natale, in forme del tutto pacifiche e innocue. Ciò nonostante, la stampa, quando non poteva ignorare del tutto le proteste, bollava i manifestanti come “terrapiattisti” e denunciava presunte infiltrazioni di gruppi eversivi. La polizia agì con durezza soprattutto a Milano, dove ogni sabato furono fermate e identificate decine e decine di persone. Era forse anche un segnale per la “maggioranza silenziosa”, infastidita dal caos nella zona dello shopping.

Con le festività natalizie, le piazze che non avevano peraltro mai trovato un coordinamento, smobilitarono definitivamente. Può sembrare strano che la protesta non si rianimasse neanche con l’obbligo generalizzato agli over 50, considerato pure che l’età media dei manifestanti era piuttosto elevata e che le categorie giovanili erano sempre state poco presenti nel movimento. Il fatto è che proprio dalle feste alla nuova fatidica data del 15 febbraio ci fu un’ondata di contagi che, sebbene quasi sempre con sintomi banali (oltretutto, il protocollo “tachipirina e vigile attesa” sebbene ancora adottato da molti medici, aveva lasciato il posto alle elementari cure domiciliari a base di antinfiammatori ed eventualmente antibiotici), colpì un’ampia area della popolazione a cominciare dai vaccinati con due e con tre dosi. Veniva così smentita dai fatti la narrazione governativa, si rivelavano del tutto prive di fondamento le famigerate dichiarazioni di Draghi nella conferenza stampa di luglio ed in quella prenatalizia, si mostrava che il Green pass non era mai stato uno strumento sanitario, bensì politico. Ma d’altra parte, la nuova ondata consentì a molti di procurarsi il cosiddetto “Green Pass da guarigione” e di evitare la sospensione dal lavoro. La minoranza dei sospesi divenne ancora più esigua e ogni possibilità di resistenza collettiva svanì definitivamente.

Le uniche manifestazioni alla fine dell’inverno furono le “proteste dell’aperitivo”, che focalizzavano l’attenzione sulla esclusione dai locali pubblici e non su quella dal lavoro. Del resto, i pochissimi partecipanti a questo tipo di mobilitazione non erano sospesi, o perché potevano lavorare col tampone o perché “guariti”. Fu una singolare protesta contro il Green Pass con chi il Green Pass lo aveva accettato, ma sin sentiva comunque parte attiva di una inesistente resistenza perché il Qr code lo usava “sol per lavorare”.

 I pochi sospesi restarono isolati e quando il governo ad aprile offrì la possibilità di rientrare al lavoro con il tampone, la maggior parte di lor ne approfittarono. Restarono pochi irriducibili a testimoniare, anche e soprattutto a futura memoria, la necessità di opporsi non solo alla vaccinazione forzata, ma anche e soprattutto allo strumento repressivo, di sorveglianza, controllo e discriminazione, che era stato adottato per l’”emergenza sanitaria” e che avrebbe potuto esser calibrato su nuove presunte emergenze, piegato ad altri usi e finalità politiche. Non a caso, un Dpcm passato quasi del tutto sotto silenzio, aveva prorogato di due anni e mezzo la “validità tecnica” del Green Pass ed esso, del resto, nelle strutture sanitarie e nelle Rsa non venne abrogato neanche in estate.

Lo scioglimento anticipato delle Camere, in piena estate, colse di sorpresa un’area del dissenso che, sebbene pressoché inesistente nel “paese reale”, era rimasta molto attiva sui canali e sui social “alternativi”, concentrandosi però sempre più sulla guerra in Ucraina e mostrando tra l’altro scarsa coerenza nel simpatizzare con Putin, con il suo dispotismo e con la sua occupazione militare dopo aver denunciato il regime liberticida italiano.

Dalle premesse che sono state rapidamente ricostruite doveva essere chiaro che non vi era alcuna possibilità di mandare in Parlamento una rappresentanza significativa per il semplice fatto che questa area, nonostante la presenza nel paese di alcuni milioni di non vaccinati e il diffuso malcontento per le politiche pandemiche, non era riuscita a raggiungere alcuna consistenza politica. I leader delle varie formazioni pensarono tuttavia di poter capitalizzare la visibilità raggiunta nei mesi precedenti e schierarono quattro o cinque diverse liste cosiddette “anti-sistema”, senza neanche provare a raggiungere un accordo e aprendo subito il fuoco gli uni contro gli altri. Un’altra e fondamentale spaccatura, in questa area di potenziale dissenso, fu quella che divise queste liste ed i loro elettori dall’area, stando ai risultati una consistente maggioranza, che scelse invece l’astensione dal voto per non legittimare il regime e prevedendo la scontata disfatta elettorale.

Intanto, si era entrati nella nuova emergenza e, per ironia o per nemesi, i primi a soffrirla in modo acuto furono i rappresentanti di quelle stesse categorie – commercianti, piccole imprese – che più erano state danneggiate dalle prime misure restrittive anti-covid. Non fu un semplice ritorno al punto di partenza: queste categorie si riscoprirono ancora più isolate di due anni prima. Si erano infatti prodotte spaccature forse insanabili,  in quanto fondate non solo su interessi economici divergenti o su diversità di opinioni politiche, ma sulla radicale diversità delle esperienze vissute: quella tra chi aveva accettato non solo il Green Pass imposto dal governo ma il ruolo di controllore, di sorvegliante degli altri cittadini – come appunto nel caso dei commercianti e degli esercenti – e la massa dei non vaccinati; e in quest’ultima, quella tra i “guariti” dotati comunque di Green Pass e gli intransigenti e poi ancora quella tra votanti e astensionisti…

Il nuovo paradigma politico – il governo attraverso l’emergenza permanente, il biopandemismo, come lo aveva definito uno dei due soli docenti universitari sospesi – aveva ottenuto un oggettivo, notevolissimo successo: più di nove italiani su dieci – vaccinati o meno che fossero – avevano comunque accettato il Green Pass, lo strumento politico di cui si era servito il governo e a cui avrebbe potuto nuovamente ricorrere dopo il riuscitissimo esperimento, e non era mai nata una vera resistenza e opposizione collettiva e quindi politica.

Era di vitale importanza delineare un bilancio critico della fallimentare esperienza. Ma chi poneva mano ad esso?

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Fin qui il nostro storico del futuro: il suo obiettivo sarà infatti quello di mostrare, nel cruciale passaggio delle politiche pandemiche degli anni 2020-2022 e in particolare nella decisiva giornata del 15 ottobre 2021, le radici dei fenomeni epocali che si produssero in seguito e soprattutto nella seconda parte del decennio, a partire da quelle premesse. Fenomeni dei quali noi, a differenza sua, non sappiamo ancor nulla. Ci resta la speranza di poter ancora modificare quel futuro che il nostro storico già conosce. Se saremo capaci della analisi critica di cui egli registrava la mancanza.

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