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letture critiche del tempo presente

L’ANALISI DEL VOTO

Il dato più rilevante di questa tornata elettorale è l’astensionismo che ha superato il 36%. Oltre un terzo dell’elettorato non vota. Siamo vicini ai 20 milioni di italiani che non si riconoscono più in alcuna forza politica. È un dato che può essere correttamente valutato nella sua portata dirompente solo se si conosce la storia elettorale italiana e si evitano paragoni fuori luogo con altri paesi (tipo gli USA). Per oltre trent’anni – fino alle politiche del 1979 comprese – la percentuale dei votanti in Italia è stata superiore al 90%. Negli anni Ottanta è scesa, ma è rimasta comunque oltre l’80% fino a tutto il primo decennio del XXI secolo. La caduta si è verificata a partire dal 2013, nella seconda fase della seconda Repubblica, ma domenica scorsa altri cinque milioni di astenuti si sono aggiunti alla già cospicua cifra del 2018. Non può trattarsi, evidentemente, se non in minima parte, di indifferenza e “qualunquismo”. Siamo piuttosto di fronte a una manifestazione di distanza, di rifiuto, di protesta, di indignazione e persino di disprezzo nei confronti del sistema politico e di tutti i suoi rappresentanti, maggioranza e opposizione, “sistema” e “anti-sistema” (per usare parole abusate in questa campagna elettorale). Proprio i personaggi che si sono autodefiniti “anti-sistema” avrebbero dovuto valorizzare questo fenomeno, dare ad esso una espressione politica (salvaguardando oltretutto quella unità dell’area del dissenso, che si è meschinamente frantumata non appena è incominciata la fregola elettorale): al di là delle questioni di principio, si trattava di un ragionamento di elementare intelligenza politica, che le vanità personali e la diffusa immaturità e ignoranza politica hanno impedito. Si è invece preferito ostentare la propria irrilevanza, mostrando all’universo le proprie percentuali irrisorie e consentendo proprio al “sistema” di certificare l’insignificanza dell’area spregevolmente definita come “no-vax”.

A proposito di percentuali il dato formidabile dell’astensione ridimensiona quelle diffuse dai media, che vengono calcolate naturalmente sui votanti e non sul corpo elettorale nel suo complesso. Così, il partito vincitore, ossia Fratelli d’Italia, ha ottenuto il 26% dei votanti, ma solo il 16% sul totale degli elettori. Il centro-destra è stato votato non dal 44% ma dal 28%, il centro-sinistra non dal 26% ma dal 16. E via via, il PD ottiene il voto di poco più di un cittadino maggiorenne su 10, il M5S di poco meno di uno su 10, la Lega del 6%, un italiano su 20 o poco più, come Forza Italia. E le liste cosiddette “anti-sistema” vedono trasformare i loro unovirgola in uno zerovirgola e nel complesso, messe tutte assieme, considerando le percentuali sugli elettori e non sui votanti, ottengono solo il 2,5%.

Per riprendere ed esaurire il discorso proprio sulle liste “anti-sistema” – termine quantomai improprio visto che sono tutte, nelle loro enunciazioni programmatiche, “stataliste” e dunque esaltano proprio l’apparato di potere centrale, pensando ingenuamente che la sua natura repressiva dipenda da chi lo guida e che quindi basti cambiare il conducente– e sulle prospettive dell’area “del dissenso”, si possono fare le seguenti considerazioni.

Innanzitutto, bisognerebbe che tutti prendessero atto con un minimo di maturità del risultato, invece di scaricare in modo puerile la responsabilità del fallimento sugli altri (in primo luogo sugli astenuti) e talora con espressioni da vero squadrismo verbale (“sfasciacarrozze”, “teppisti”, “servi del sistema”, “nascosti sotto la foglia di fico dell’astensionismo”: questi alcuni poetici versi).

Il dato è che queste liste non hanno conosciuto una sconfitta, ma una disfatta, restando lontane anche dall’obiettivo minimo che era quello di confermare in Parlamento le rare – e peraltro irrilevanti – voci critiche che erano già presenti in questa passata legislatura. 

Purtroppo, la critica più diffusa nei loro confronti riguarda la mancata unità. Francamente che questa sia l’obiezione fondamentale è desolante, perchè essa resta molto al di sotto del vero problema.

Innanzitutto, si scambia la politica con l’aritmetica, ma la storia elettorale – pluridecennale – delle diverse aggregazioni, dei tentativi di aggregazione, delle mancate aggregazioni, delle aggregazioni riuscite, dimostra eloquentemente che alle elezioni due più due fa sempre meno di quattro e che talora è preferibile correre da soli per ottenere un risultato migliore (ieri è stato il caso del M5S di Conte rispetto al movimento di Di Maio).

Ma poi, e qui veniamo al punto centrale, su che cosa si sarebbe dovuta fare questa unità? Sul programma che era “simile”, si risponde. Simile su cosa? Sul no al Green Pass e alle armi all’Ucraina? E quale era la visione alternativa di società di queste forze (si fa per dire) e di questi personaggi, quale era il loro progetto politico – che non si riduce certo a qualche punto programmatico in un manifesto elettorale – quale era la loro analisi sui fattori che stanno a monte del Green Pass, degli obblighi, della guerra? Semplicemente non c’era. Nessuna critica seria alla medicalizzazione sociale e culturale, alla medicalizzazione della vita, al paradigma di potere biopolitico, tantomeno al “capitalismo della sorveglianza”, ossia nessuna analisi e critica seria al vero sostrato di Green Pass e obblighi, ma una vuota e ripetitiva giaculatoria contro un fantomatico “neoliberismo”. Stessa cosa su guerra e politica internazionale o sull’economia globale: una narrazione riduttiva e quasi caricaturale del cosiddetto Deep State, una divisione manichea del mondo, uguale ed opposta a quella dei media mainstream, con i buoni e i cattivi che si scambiano di posto; nessuna consapevolezza della complessità degli intrecci nella struttura del potere e delle novità dirompenti introdotte tanto nell’economia che nei meccanismi politici dalla quarta rivoluzione industriale; una imbarazzante statolatria, per cui quello stesso apparato di potere denunciato per due anni come aguzzino e oppressore doveva diventare magicamente un benefattore del popolo solo perchè cambiava la guida, cambiavano gli uomini al comando;  una confusa miscela ideologica, una poltiglia non commestibile con un po’ di Putin, un po’ di Trump, un po’ di Viganò, un po’ di Dugin, un po’ di Kirill che benedice le bombe e che promette il regno dei cieli ai soldati morti per la patria (non male per chi protesta contro le guerre della Nato)e sullo sfondo la Cina idealizzata dallo stalinista Rizzo (non male per chi protesta contro il Green Pass). Espressione emblematica di queste debolezze culturali la figura di Frajese: da un lato medico encomiabile, dall’altro, membro del comitato scientifico di una associazione di agricoltori che ha nel suo programma esattamente l’Agenda 2030 dell’ONU, ossia l’agenda delle oligarchie globaliste, e che partecipa ai summit del Wef. Non di gatekeeper si tratta, ma, come dicevo, di fragilità di analisi.

Né si possono dimenticare le già citate violente manifestazioni verbali di intolleranza nei confronti degli astenuti, che già prima del risultato hanno definitivamente tolto la maschera a tanti finti amici della libertà.

Costoro – i “capi” – ormai sono andati, con le loro liste, sparse o raggruppate non avrebbe fatto la differenza, e non merita più di parlarne. Ciò di cui invece occorrerà ancora parlare è dell’illusione che hanno potuto vendere ad alcuni, a quelli in buona fede, figlia di quel deficit di analisi di cui sopra, deficit che bisogna colmare per costruire una vera alternativa di sistema.

In sintesi, il capitale da cui ripartire, se finalmente si vorrà avere intelligenza politica, sono gli astenuti, soprattutto i cinque milioni in più rispetto al 2018, che difficilmente possono essere ascritti a disinteresse e qualunquismo.

Tra gli elettori bisogna distinguere tra i fanatici, che ora sfogano un livore grottesco,  e tutti gli altri che sono chiamati a elaborare la delusione in un percorso di consapevolezza: la politica può avere tante facce e direzioni, ma non può non avere a che fare con la realtà, mentre le liste e i personaggi in cui questi elettori hanno investito erano palesemente fuori dalla realtà, hanno consegnato alla irrilevanza la rappresentanza ufficiale dell’area del paese che in questi due anni si è opposta a Green Pass e obbligo, hanno solo prodotto altre macerie su cui ora si dovrà faticosamente ricostruire.

La ricostruzione, come ho sempre detto, è lunga e difficile, non passava e non passa per il voto, ed è innanzitutto un processo culturale, che solo quando saranno maturate le condizioni potrà avere una espressione politica in senso stretto – nel senso cioè dell’organizzazione di un soggetto politico.

Dovrebbe essere chiaro che la fretta di agire, precipitando i tempi, porta solo al disastro. Per un’azione efficace bisogna prima pensare. E questo dico a tutti quelli che ora rivolgeranno la solita domanda: “e ora che si fa”? “e tu che proponi”? Una sola parola di risposta: PENSARE. Che significa riflettere, studiare, imparare, capire in che mondo ci troviamo, con spirito critico e con umiltà. Pensare per pter costruire sula roccia e non sulla sabbia.

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Intanto, avremo un nuovo governo, presumibilmente guidato da Giorgia Meloni. Si possono fare già alcune considerazioni.

1. La vittoria della Meloni è niente altro che la quarta espressione di quell’onda di malcontento e di convulsa e anche confusa ricerca di cambiamento che è incominciata dopo il 2011, ossia con la seconda fase della seconda Repubblica, quella seguita alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, con la fine del bipolarismo. Da allora gli italiani scontenti hanno riversato questa ansia di cambiamento sul primo leader o partito che hanno percepito – sempre a torto – come “nuovo” e “diverso”, come “uno di noi”: prima Renzi, poi Grillo e il Movimento 5 Stelle, quindi Salvini e ora la Meloni. L’illusione è durata regolarmente poco. La fase che si è aperta nel secondo decennio di questo secolo si può correttamente definire “populista”- con la fondamentale precisazione che la prima espressione vincente del populismo è stata il renzismo e non il grillismo e che il fenomeno era stato già cavalcato da Berlusconi e forse inaugurato dalla presidenza Pertini. Del populismo è tipica la domanda di “protezione” che porta a disconoscere le mediazioni istituzionali e a investire direttamente su un leader, ampiamente slegato dal suo stesso partito e a cui si attribuisce un qualche carisma.

2. Il risultato elettorale di Fratelli d’Italia è certamente notevole, visto il punto di partenza, ma la vittoria del centro-destra va ridimensionata. Che il centro-destra sia maggioranza nel paese non è una novità: lo è ininterrottamente dal 1994. In termini percentuali, il risultato attuale è paragonabile a quello del 1994 del 1996, del 2006, ma è molto inferiore a quello del 2001 e del 2008. Occorre poi rapportare il dato, come dicevamo, alla percentuale di votanti: se si pensa che nel frattempo l’astensione è nettamente cresciuta si capisce che il centro-destra, rispetto all’epoca berlusconiana, ha perduto diversi milioni di voti: il 43% di voti di oggi non equivale affatto al 43% del 1994. Nella coalizione vi è poi la cocente sconfitta della Lega e la conferma che Forza Italia è ormai un partito minore nel quadro politico generale.

3. Come si diceva, il rischio per la Meloni è che ripeta la breve parabola di chi l’ha preceduta nell’onda  populista. Ha però dei vantaggi, rispetto agli altri: non è arrogante, conosce l’abc della politica e soprattutto, a differenza dei primi 5stelle e del Salvini di qualche anno fa, si è accreditata presso i poteri forti (lo testimonia, tra l’altro, anche la tranquillità dei “mercati”).

4. La difficoltà per lei sarà proprio in questo muoversi tra Scilla e Cariddi: non dovrà deludere né i poteri forti, né gli elettori. Se i primi avranno l’intelligenza di non stringere troppo il guinzaglio (in fondo conviene anche a loro la stabilità, piuttosto che attendere che gli italiani si rivolgano al prossimo pifferaio magico, che poi dovranno normalizzare) può anche tenersi a galla.

E in tal caso qualche minimo beneficio ne avremo tutti: non si parlerà più di Green Pass e di obblighi vaccinali, il fisco sarà leggermente meno feroce, rallenterà, anche se non si fermerà, l’attacco a quel che resta del patrimonio nazionale, che è ormai soprattutto quello nelle mani dei privati cittadini, perchè il resto è stato svenduto, sarà un po’ meno opprimente, anche se certamente non si dissolverà affatto, la cappa del politically correct.

Proprio riguardo a Green Pass e obblighi vaccinali, la mia “ottimistica” previsione va meglio articolata. Misure così palesemente e rigidamente restrittive come quelle che abbiamo avuto in Italia – e che ancora sopravvivono nel campo sanitario – misure da Stato dispotico, non sono facilmente attuabili da un governo guidato da un “politico”. In fondo, neanche Conte – che non nasce politico, ma si è subito industriato di diventarlo – se le era potute intestare e si è dovuto chiamare Draghi per svolgere il “lavoro”.

Sebbene sia sotto gli occhi di tutti come la classe politica – in Italia, innanzitutto, ma anche altrove – sia sempre più strettamente dipendente dai “poteri forti” resta probabilmente una differenza tra un governo politico e un governo tecnico o guidato da un tecnico. Il primo deve conservare una sia pur limitata autonomia. In tal senso, proprio la storia del fascismo (fascismo e nazismo), che viene imputata alla Meloni, può essere paradossalmente di conforto. Il fascismo e il nazismo conquistarono il potere sia grazie al consenso di massa, sia grazie a una alleanza con i poteri forti di allora. Di questa alleanza Hitler e Mussolini dovettero costantemente tener conto, ma i loro regimi, come fu detto da qualche lucido studioso marxista, che applicò ad essi la categoria di “bonapartismo” (il riferimento è a Luigi Bonaparte, cioè a Napoleone III), ebbero la tendenza ad “autonomizzarsi” da questi poteri, a non esserne un mero strumento, agente e braccio armato. Si può obiettare che oggi siamo in presenza di poteri ancora più pervasivi e di una classe politica, Meloni compresa, di statura ben inferiore. E sono obiezioni purtroppo fondate. Resta la speranza che la Meloni, paradossalmente, possa essere, nel senso appena precisato e in nessun altro senso, un po’ “fascista”, che l’”Agenda” se certo resterà la stessa, possa essere declinata con meno ferocia rispetto al governo Draghi.

Questo è tutto ciò che possiamo augurarci, nell’immediato, mentre dobbiamo pensare seriamente a una alternativa di sistema.

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