Quale è il ruolo del filosofo – e definisco filosofo, in senso lato, colui che svolge una attività di pensiero, di studio, di ricerca non legata a scopi immediatamente pratici – e quale è quindi il ruolo della filosofia nella società e nel campo della politica? Questione antichissima e oggi più che mai urgente. Da un lato, infatti, la gravità della crisi in atto e i terribili rischi per il prossimo futuro sembrano chiamare nuovamente il filosofo, lo studioso a un “impegno” – ad un engagement; dall’altro lato, la volgarità dilagante nel dibattito pubblico – profetizzata già nel 1930 da Ortega y Gasset (“l’uomo-massa imporrà i suoi luoghi comuni da caffè” – La ribellione delle masse) pretende che questo impegno contraddica precisamente l’essenza di quella attività di pensiero, di studio e di ricerca e, quando il “filosofo” si mostra riluttante a ciò, lo espone allora all’insolenza: se non scende in piazza a urlare, se rifiuta di militare in un partito, se detesta la propaganda elettorale, se non risponde nei termini semplicistici che gli vengono richiesti alla fatidica domanda “e tu che proponi?”, allora è uno che vuole stare “comodamente sul divano” (benché i filosofi operino più dallo scrittoio), è un “leone da tastiera” (rifiutandosi di essere pecorella nel partito o nel corteo), al limite è uno che “fa il gioco del sistema” (solo perché non accetta di esserne l’utile idiota come certi “anti-sistema”).
Volendo discutere seriamente del problema, si può ricordare che nell’Ottocento emersero due concezioni apparentemente opposte del ruolo del filosofo e della filosofia, quella di Hegel e quella di Marx.
Hegel, in polemica con quelli che erano a suo avviso i sogni infantili dei rivoluzionari del suo tempo, paragonò la filosofia alla “nottola di Minerva”, la civetta associata ad Atena glaucopide, la dea della sapienza (ma anche della intelligenza strategica nella battaglia): «Per dire ancora una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia giunge sempre troppo tardi. In quanto pensiero del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione e s’è bell’e fatta […] Quando la filosofia dipinge il suo chiaroscuro, allora una figura della vita è invecchiata; e con il chiaroscuro essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo» (Lineamenti di filosofia del diritto).
Vale a dire che il compito del filosofo, per Hegel, non è quello di disegnare progetti sulla società futura e la filosofia non è la dottrina di come dovrebbe essere il mondo. Quando la filosofia arriva a dire una parola su questo, la realtà si è già bella e formata. La filosofia inizia quindi il suo volo al crepuscolo, quando il giorno è già compiuto, come la nottola di Minerva. Ciò non significa, però, che essa debba rinunciare a questo volo o che questo volo non sia significativo: il suo compito non è quello di fotografare questa realtà già compiuta, ma è quello di spiegarne comunque la profonda e intrinseca razionalità, che altrimenti sfuggirebbe; e, sfuggendo, condurrebbe gli uomini a tentativi vani e a errori fatali.
Opposta, in apparenza, l’idea di Marx. Marx, a dire il vero, aveva come suo bersaglio polemico non tanto Hegel, ma i “giovani hegeliani”, la cosiddetta “Sinistra hegeliana”, e Feuerbach – che non era parte della corrente ma che Marx in questa polemica accomuna ad essa. Costoro, dice Marx, si credono rivoluzionari – si credono “anti-sistema” diremmo magari oggi – ma non fanno che lottare contro le frasi del mondo contrapponendovi altre frasi, restano sul piano della mera speculazione astratta, sono quindi agnelli che si spacciano per lupi (L’Ideologia tedesca). Nelle Tesi su Feuerbach, uno dei suoi scritti giovanili, Marx fa il controcanto al pensiero di Hegel appena ricordato: «I filosofi – scrive – finora hanno solo interpretato il mondo, in modi diversi. Ora si tratta di trasformarlo».
Se avesse voluto riprendere la metafora di Hegel, Marx avrebbe magari potuto dire che quelle ore notturne nelle quali la nottola dispiega le sue ali, non sono solo quelle che seguono un giorno già compiuto, ma sono anche e soprattutto le ore che precedono e preparano un giorno ancora da farsi.
Non dubito che oggi la posizione di Marx è quella che riscuoterebbe più applausi in un ideale “faccia a faccia” tra lui e Hegel. Ma così si resta ancora alla superficie. Ho definito “apparente” la contrapposizione tra le due tesi. Esse, infatti, condividono un punto fondamentale: entrambe compromettono la filosofia con il potere. Non è facile capirlo, però. Il filosofo sul modello di Hegel, infatti, sembra voler arretrare nella riflessione pura e quasi aderire all’ideale aristotelico della sapienza. Non era questa l’intenzione di Hegel, che non voleva affatto “spoliticizzare” la filosofia e, in ogni caso, se pure avesse avuto tale intenzione, le reali implicazioni della sua posizione e il contesto storico nel quale essa si esprimeva la caricavano comunque di significati politici. Hegel è stato per questo accusato di “giustificazionismo” nei confronti della realtà. Da questa accusa poté difendersi agevolmente sostenendo che essa dipendeva da un equivoco: nella vita ordinaria si usa definire “reale” qualsiasi capriccio, errore o male, qualsiasi accidente o casualità. Il suo atteggiamento non era certo la giustificazione banale della realtà in ogni suo aspetto, ma, come già si accennava, lo svelamento della intrinseca razionalità del corso del mondo e degli eventi: autenticamente reale, per Hegel, è solo ciò che è razionale. Ma proprio in questo si rivela il suo giustificazionismo nei confronti del potere: chi lo ha conquistato e riesce poi a conservarlo e gestirlo stabilmente, solidamente – sono esclusi gli effimeri sovvertimenti e certi esperimenti rivoluzionari come ad esempio il Terrore giacobino – è per Hegel portatore di una più alta razionalità, rispetto a chi è stato sconfitto e a quel potere vanamente si oppone o oppone i suoi sogni di cambiamento. Nelle specifiche contingenze storiche si trattava oggettivamente di una giustificazione dello Stato prussiano e della chiesa di Stato luterana e, in generale, dei poteri dominanti dell’epoca della cosiddetta Restaurazione. Ciò gli fu contestato da Schopenhauer, che lo accusò appunto di aver asservito la filosofia al potere.
Una contestazione analoga nei riguardi dell’hegelismo appare quella di Marx, sopra citata, ma è così solo se ci si ferma alla superficie. L’idea che i filosofi debbano farsi carico di un progetto per trasformare il mondo e che debbano essere essi stessi “rivoluzionari” più che filosofi nell’accezione tradizionale del termine (è ciò che disse esplicitamente Engels proprio nell’elogio funebre del suo amico e compagno di pensiero e di lotta), che debbano essere “intellettuali organici” ad una classe sociale organizzata e rappresentata poi da un partito, come affermerà Gramsci, si colloca nel solco dell’eredità giacobina e a sua volta consegna una pesante eredità al Novecento, un lascito che sarà raccolto e valorizzato dal “leninismo”, sia quello propriamente detto, che si esprimerà nell’URSS, nello stalinismo e nei partiti e regimi comunisti di tutto il mondo, sia quello, in una accezione estesa del termine, dei movimenti rivoluzionari e dei totalitarismi di “destra”. È la concezione che vorrebbe modellare la realtà su un disegno astratto, un progetto ideologico; è, in fondo, l’idea del Great Reset, che si ritrova nei rivoluzionari di ogni tempo e di ogni tendenza. Che sia un’idea intrinsecamente violenta e autoritaria, che contesta il potere vigente, proponendosi di istituire un altro potere, non meno e anzi solitamente più brutalmente oppressivo, non lo dice solo la critica intellettuale, ma lo mostra la storia reale. La storia dei regimi nati da questa concezione rivoluzionaria, ovviamente, ma anche la storia dei partiti e movimenti rivoluzionari. Prima ancora di esercitare brutalmente il potere, quando i loro disegni rivoluzionari hanno successo, questi partiti e movimenti praticano l’autoritarismo, l’intolleranza, l’epurazione del dissenso, la diffamazione e il linciaggio morale (talora anche fisico) dei dissidenti al loro interno, come prassi abituale. Ciò è avvenuto, tragicamente, nei vecchi partiti comunisti o nei partiti di estrema destra e si è ripetuto e si ripete, in modo più grottesco che tragico, nei gruppuscoli di estrema sinistra, nei decenni passati, e oggi in taluni partitini “anti-sistema”.
Se il filosofo vuole evitare di compromettersi con il potere e di essere coinvolto, almeno moralmente, nei suoi delitti, non può quindi assumere né il ruolo che gli assegnava Hegel, né quello definito da Marx.
È chiaro che così ci si espone a uno dei “luoghi comuni da caffè” di cui parlava Ortega y Gasset, il luogo comune che riprende, banalizzandolo Sartre – non a caso filosofo marxista – sulla necessità di “sporcarsi le mani”: chi non accetta di sporcarsele, rinuncerebbe ad usarle, sarebbe condannato alla impotente solitudine della sua “torre d’avorio”. Si può facilmente rispondere che il filosofo è chiamato ad usare la testa e non le mani, che “sporcarsi le mani” significa purtroppo “sporcarsi la testa” e che c’è un modo, appunto filosofico, di usare la testa, che è tutt’altro che sterile, che è tutt’altro che innocuo e inoffensivo per il potere, per il potere del “sistema” e per quello dell’”anti-sistema”.
Questo modo è il più antico, è quello della filosofia greca classica, è la ricerca della verità, a cui spinge l’amore implacabile per la verità; lo indica già l’etimologia del termine, dato che la sophia è la sapienza e la sapienza consiste appunto nella ricerca disinteressata della verità, nella ricerca della verità che non ha altri scopi se non la verità stessa. In tal modo, certamente la filosofia resta immune dal potere, ma, ecco la solita scontata obiezione, si rifugia nella sua “torre d’avorio”. A parte il fatto che nel mondo moderno globalizzato e iperconnesso non ci sono più “torri d’avorio”, che la parola del filosofo sarebbe inevitabilmente “pubblica”, anche se egli non volesse renderla tale, a parte il fatto che l’ideale del sapiente aristotelico non è più praticabile in questo mondo e che del resto esso è stato banalizzato e frainteso (Aristotele ha scritto e come di politica!), la parola in cui risuona la verità è di per sé pericolosa per il potere, a prescindere anche dalle intenzioni di chi la pronuncia, perché lo smaschera, ne smonta le mistificazioni, ne svela gli inganni. Potere e verità sono inconciliabili: il potere ha nella menzogna la sua linfa vitale; senza menzogna, deperisce e muore. Ciò che il potere più teme e più detesta non sono gli “oppositori” e i “dissidenti”, che in certi casi e in certa misura gli fanno anzi comodo, ma sono coloro che dicono la verità, coloro che hanno il coraggio di dire la verità.
A questo punto, si può anche tornare alla contrapposizione, solo in parte autentica, tra Hegel e Marx, per chiedersi se questa verità che il filosofo è chiamato a cercare e a dire (per prevenire un’altra scontata obiezione: cercarla e dirla anche quando giungesse alla conclusione che non ci sono verità assolute o che addirittura non c’è alcuna verità, perché anche questa posizione relativista o scettica è massimamente destabilizzante per il potere), se questa verità riguarda dunque il corso del giorno che si è già dispiegato o anche e soprattutto il mondo futuro. Il filosofo accademico, come lo pensa Hegel, certamente non può esprimersi sul mondo futuro; il filosofo “rivoluzionario” come lo pensa Marx non è più autenticamente filosofo, per ciò che abbiamo detto. Il filosofo autentico trova a mio avviso la migliore incarnazione in Nietzsche, nella figura del filosofo-profeta. Purché, ovviamente, non si fraintenda il termine, come avviene comunemente. Il profeta o il filosofo dotato di una qualità profetica non è un indovino, non è un veggente, non parla del futuro, ma del presente (magari anche alla luce del passato, come i profeti antico-testamentari). Legge la realtà presente in modo profondo e critico, cogliendo e smascherando ciò che i più non sanno o non vogliono vedere, inchiodandoli alle loro responsabilità. E per questo è incompreso, impopolare, osteggiato. Lo smascheramento del presente spesso lo porta anche a intravedere i possibili sviluppi futuri e quindi in tal senso, e solo in tal senso, ha anche una sorta di preveggenza.
In definitiva, la filosofia e il filosofo hanno certamente un ruolo “politico”, ma esso non consiste in una militanza di partito o nel sostegno a una fazione politica. Naturalmente il filosofo, come ogni cittadino e non specificamente in quanto filosofo, può partecipare a manifestazioni di piazza, ad associazioni, comitati, organizzazioni varie della società civile, sempre che in piazze e movimenti non scorga una mistificazione, una manipolazione di quella verità che è il fondamentale impegno e dovere della sua vita di filosofo. In tal caso, piuttosto che “scendere in piazza” fa meglio il filosofo a restare “sul divano” a studiare, fa meglio a fare il “leone da tastiera” perché i ruggiti della sua parola sono almeno autentici e potrebbero anche far più male al potere dei “belati” di un movimento infiltrato e strumentalizzato.
Il ruolo politico del filosofo consiste quindi nel prendere pubblicamente la parola e nel dire pubblicamente la verità. E questo richiede ovviamente un impegno, una vera fatica di studio, di riflessione, di ricerca, oltre all’imprescindibile requisito dell’onestà intellettuale.
A chi sia destinata questa parola, chi possa raggiungere, da chi possa esser capita e non fraintesa è un problema che non a caso si è posto giorni fa un vero filosofo, uno che è rimasto sempre estraneo alle compromissioni col potere e col contropotere e ha così evitato le capriole di altri. E non a caso egli si è posto tale problema mentre impazza la cagnara elettorale. Voglio quindi concludere con le parole di Giorgio Agamben e poi con una mia breve riflessione sull’argomento.
«A chi si rivolge la parola?» (Giorgio Agamben)
«In ogni epoca poeti, filosofi e profeti hanno lamentato e denunciato senza riserve i vizi e le manchevolezze del loro tempo. Chi così gemeva e accusava si rivolgeva tuttavia a dei suoi simili e parlava in nome di qualcosa di comune o almeno condivisibile. Si è detto, in questo senso, che poeti e filosofi hanno sempre parlato in nome di un popolo assente. Assente nel senso di mancante, di qualcosa di cui si sentiva la mancanza ed era pertanto in qualche modo ancora presente. Sia pure in questa modalità negativa e puramente ideale, le loro parole supponevano ancora un destinatario.
Oggi forse per la prima volta poeti e filosofi parlano – se parlano – senza avere più in mente alcun possibile destinatario. La tradizionale estraneità del filosofo al mondo in cui vive ha mutato di senso, non è più soltanto isolamento o persecuzione da parte di forze ostili o nemiche. La parola deve ora fare i conti con un’assenza di destinatario non episodica, ma per così dire costitutiva. Essa è senza destinatario, cioè senza destino. Ciò si può anche esprimere dicendo, come si fa da più parti, che l’umanità – o almeno quella parte di essa più ricca e potente – è giunta alla fine della sua storia e che pertanto l’idea stessa di trasmettere e tramandare qualcosa non ha più senso. Quando Averroè nell’Andalusia del XII secolo affermava che lo scopo del pensiero non è di comunicare con gli altri, ma di unirsi all’intelletto unico, egli dava però per scontato che la specie umana fosse eterna. Noi siamo la prima generazione nella modernità per la quale questa certezza è stata revocata in dubbio, per la quale anzi appare probabile che il genere umano – almeno quello che intendevamo con questo nome – potrebbe cessare di esistere.
Se, tuttavia – come io sto facendo in questo istante –, continuiamo a scrivere, non possiamo non chiederci che cosa possa essere una parola che in nessun caso sarà condivisa e ascoltata, non possiamo sottrarci a questa estrema prova della nostra condizione di scriventi in condizione di assoluta inappartenenza. Certo il poeta è da sempre solo con la sua lingua, ma questa lingua era per definizione condivisa, cosa che ora non ci sembra più così evidente. In ogni caso, è il senso stesso di ciò che facciamo che si sta trasformando, si è forse già integralmente tramutato. Ma questo significa che dobbiamo ripensare da capo il nostro mandato nella parola – in una parola che non ha più un destinatario, che non sa più a chi si rivolge. La parola diventa qui simile a una lettera che è stata respinta al mittente perché il destinatario è sconosciuto. E noi non possiamo respingerla, dobbiamo tenerla fra le mani, perché forse siamo noi stessi quel destinatario sconosciuto».
Quelli che sono davvero filosofi o magari poeti e forse sono anche capaci di una parola “profetica”, ossia di una parola che denunci i mali del proprio tempo e sveli senza riserve, senza timore delle reazioni furibonde, degli equivoci e delle incomprensioni, ciò che i più non sanno o non vogliono vedere, devono fare i conti molto spesso e più che mai in questo tempo con l'”assenza di destinatario”. Io non credo, tuttavia, come scrive invece Agamben che il destinatario siamo noi stessi. Continuo a pensare che ci possa essere un altro destinatario della parola, di quella parola che non noi stessi, ma un Altro ci impone di rivolgere, pur in assenza apparente di un interlocutore. Voglio sperare che ci sia un “resto”, per dirla con la parola della Bibbia o che quantomeno ci sia ancora un “popolo assente”, nel senso di “mancante”. E che comunque se pure fosse del tutto escluso quel destinatario umano, la parola non sarebbe “senza destino” e sarebbe rivolta a Dio, non certo perché Egli abbia bisogno del nostro insignificante pensiero, ma in forma di preghiera.