In un memorabile articolo pubblicato il 1° febbraio del 1975 sul Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini lamentò il fenomeno “fulmineo e folgorante” che si era verificato in Italia già da dieci anni, passando pressoché inosservato: per effetto dell’inquinamento erano scomparse le lucciole.
Pasolini sembrava riecheggiare il libro pubblicato nel 1962 da una scrittrice americana, Rachel Carson, un libro che aveva inaugurato la stagione della contestazione ambientalista alla società industriale avanzata e al sistema capitalistico. La Carson denunciava l’uso dei pesticidi e dei diserbanti in agricoltura: se si continua così, diceva, queste sostanze tossiche si disperderanno nella terra, nelle acque, saranno assorbite dall’erba e dagli animali, finiranno nel cibo e persino nel latte materno e quando moriranno gli uccelli la primavera sarà tristemente silenziosa (Rachel Carson, Primavera silenziosa).
In verità, l’articolo di Pasolini, come vedremo più avanti, era ben altro che la denuncia di un ecologista. I temi centrali della contestazione ecologista non erano però estranei allo scrittore: pochi mesi dopo, parlando ad una assemblea del PCI – un partito che gli aveva causato molto dolore e con il quale avrebbe avuto sempre un difficile rapporto, ma che nelle amministrative del 1975 aveva deciso di votare – Pasolini rimarcava la essenziale distinzione tra “sviluppo” e “progresso”. In questo caso, sembrava più esplicito il riferimento a un altro classico dell’ambientalismo di quegli anni, Arcadie. Essais sur le mieux-vivre (1968) del politologo francese Bertrand de Jouvenel, fondatore del movimento sui “futuri possibili” (cfr. sulla storia della contestazione ecologista G. Nebbia, Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitalismo). Jouvenel, in particolare, puntava l’indice sull’inattendibilità del PIL come indicatore del benessere personale e sociale e quindi, in termini pasoliniani, sulla differenza tra sviluppo e progresso.
Peraltro, quando Pasolini scrisse il suo articolo, i “futuribili” profilati dalla critica ecologista al modello di sviluppo capitalistico, fondato sulla crescita infinita o indeterminata, paventavano ormai scenari ancor più sconvolgenti della scomparsa delle lucciole o della “primavera silenziosa” della Carson: nel 1972 era apparso il famosissimo libro commissionato dal Club di Roma, su “I limiti dello sviluppo” (i limiti della “crescita”, nel titolo originale) e si era fondato non su intuizioni liriche, ma su uno dei primi modelli computerizzati. Lo studio non conteneva previsioni cronologicamente precise – come poi fu erroneamente e frequentemente detto – sull’esaurimento delle varie risorse, ma certamente delineava scenari catastrofici se non si fosse abbandonata l’economia della crescita continua. A molti parve quello il definitivo salto di qualità della contestazione ambientalista – tanto più che, l’anno dopo, la guerra del Kippur, l’embargo del petrolio, l’innalzamento a livelli inimmaginabili fino a quel momento del prezzo della benzina, sembrarono confermare lo scenario apocalittico che molti avevano tratto dal saggio del Club di Roma, anche oltre le reali intenzioni dei suoi autori. In realtà, si trattava dell’inizio del processo opposto: la neutralizzazione della critica ambientalista al sistema, l’integrazione di questa critica nel sistema stesso e nella sua ideologia. Il Club di Roma – ma lo avremmo scoperto solo molti anni dopo – era uno dei principali partner e sponsor del World Economic Forum, appena fondato da Klaus Schwab. (Rimando su questo alla mia videoinchiesta sul WEF. Per informazioni: angelomicheleimbriani62@gmail.com).
L’idea di fondo che animava il circolo fondato da Aurelio Peccei era del resto la stessa dell’uomo di Davos e del suo futuro partner strategico Bill Gates: una élite tecnocratica, che si ritiene moralmente superiore e si fa carico di un progetto per il “buon governo”, per la governance del mondo.
Dissoltosi il fumo delle barricate degli anni Settanta, il disegno sarebbe divenuto più chiaro e sarebbe incominciata quella che si può definire la deriva dell’ambientalismo. Mi limito a citare alcune tappe fondamentali.
La svolta appare evidente con il cosiddetto Rapporto Bruntland (1987), che segna l’assunzione dell’ideologia dello “sviluppo sostenibile” nel programma dell’ONU. La Bruntland, ex primo ministro norvegese, sarebbe poi diventata presidente del Global Preparedness Monitoring Board (GPMB), organismo creato dall’OMS e dalla Banca Mondiale e che ha realizzato la prima simulazione di una futura pandemia nel settembre 2019, fornendo il modello alla seconda e più celebre simulazione, quella conosciuta come Event 201.
Dopo il rapporto Bruntland abbiamo avuto, limitandoci ai passaggi più significativi, la Conferenza ONU di Rio de Janeiro (1992) e l’“Agenda 21”; il Protocollo di Kyoto (1997) per limitare le emissioni di CO2; la conferenza di Parigi del 2015 e il tema del “riscaldamento globale” (COP21), per poi arrivare a Greta e all’Agenda 2030 dell’ONU, una sorta di “summa theologica” della ideologia delle élites globaliste, imposta anche nelle scuole sotto forma di “educazione civica”.
In questi anni, è certamente sopravvissuta una critica ambientalista radicale, non omologata, non funzionale al sistema, nelle forme prima dell’ecomarxismo (‘O Connor) o dell’ecologismo libertario (Bookchin o l’anarchismo verde) e poi soprattutto delle teorie della decrescita (Latouche), ma esso ha avuto un ruolo marginale nei movimenti ambientalisti, alla fine egemonizzati da una ragazzina svedese o dai suoi burattinai, e soprattutto è stata liquidata nei vari partiti “verdi”.
Se si considera questa deriva e se soprattutto la si valuta per quello che è, non un semplice orpello estetico, un belletto che le classi dominanti hanno adottato per mascherare la reale natura del loro dominio, ma un vero tentativo di ristrutturazione del sistema capitalistico, una sorta di rivoluzione delle élites (rinvio qui all’analisi che abbiamo fatto nella Carta fondativa dell’Associazione Piazza Grande, canale telegram t.me/PiazzaGrande_LibertaCostituzione), appaiono allora meno sorprendenti le affermazioni che troviamo nel libro di Schwab sul Great Reset .
Bisogna prendere atto di una cosa, scrive Schwab nel giugno 2020: i livelli di crescita, anche a pandemia finita, resteranno bassi e non ha neanche senso puntare ad alti livelli di crescita del Pil. E’ anche questa un’occasione (la solita window of opportunity) per una critica del Pil, alla “tirannia del Pil” (Schwab emulo di Jouvenel e di Pasolini!). Viene persino citato il movimento della decrescita. Ma inseguire l’obiettivo della decrescita, conclude l’uomo di Davos, sarebbe ugualmente insensato – directionless – che continuare a inseguire la crescita. La direzione giusta è la green economy, che non è in contraddizione con un certo tipo di capitalismo – il cosiddetto capitalismo degli stakeholders – e che anzi ne sarebbe il corollario (per approfondimenti rinvio alla mia già citata videoinchiesta sul Wef).
Il Potere sta quindi mostrando nuovamente una straordinaria capacità di adattarsi alle sue stesse crisi e di trasformarle in occasioni per rafforzarsi. Occorrerebbe contrapporre un’analisi all’altezza del pericolo, mentre i critici delle oligarchie dominanti – sia quelli di destra che quelli di sinistra – non fanno altro che proporre le vecchie ricette keynesiane o liberiste, fondate ancora su una ideologia della crescita definitivamente tramontata. Le élites globaliste hanno invece accolto la sfida della società senza crescita e stanno cercando di ristrutturare il sistema capitalistico per farlo sopravvivere anche alla sua ennesima crisi. Se il loro tentativo riesce, non avremo affatto una società più equa e più ecologica, ma una “società a somma zero”, in cui i vincenti saranno ancora più vincenti e i perdenti (ceti medi e classi lavoratrici) ancora più perdenti, una società, soprattutto, che configura una nuova forma di totalitarismo, bio-tecnologico e implica una vera e propria mutazione antropologica.
E qui ritorna alla mente l’articolo di Pasolini da cui siamo partiti, perché in quel suo intervento Pasolini, più che gli effetti dell’inquinamento denunciava l’avvento di un nuovo fascismo, veramente totalitario a differenza del regime finito nel 1945, e denunciava una tristissima mutazione antropologica degli italiani. Rispondendo a Franco Fortini, che riteneva che il regime democristiano non fosse altro che la prosecuzione del fascismo sotto altra forma, Pasolini scriveva che vi era stata invece una rottura – avvenuta all’incirca dieci anni prima e segnata emblematicamente dalla “scomparsa delle lucciole” – e ne era nato un “fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo”. Erano stati distrutti i valori della civiltà contadina e paleoindustriale fino a quel momento dominanti e si era affermata una civiltà totalmente “altra”, quella dei consumi. Questa nuova civiltà aveva permeato in un modo schiettamente totalitario le anime degli italiani, come il fascismo non aveva potuto né saputo fare, e ne era conseguita una vera mutazione antropologica.
Rileggiamo queste frasi di Pasolini, perché sembra che siano state scritte per i nostri giorni e lasciano il dubbio che oggi ci troviamo di fronte all’avvento di una nuova “civiltà” ancora (una civiltà incivile e asociale) – legata certo anche a quella trasformazione degli anni Sessanta-Settanta denunciata dallo scrittore – che siamo di fronte a un nuovo totalitarismo, a un nuovo mutamento antropologico degli italiani:
«Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca nella storia umana […] Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata ad essi), sia degli schemi populistici e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche, la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere da mettere e levare».
Pare che oggi le maschere (mascherine) imposte dal regime tecno-sanitario, che si appresta a divenire anche regime tecno-ecologico, dalle sue “regole”, dai suoi “dettati ipnotici imposti da media monopolizzati” (per dirla con Marcuse) siano state invece introiettate, come non era accaduto nel “fascismo fascista”, come era già accaduto con il “fascismo consumistico”, con la differenza che il nuovo totalitarismo – e questo Pasolini non lo avrebbe mai immaginato – ci prometterà presto la ricomparsa delle lucciole, magari imponendoci, prima come “dovere morale” e poi col più persuasivo ricatto del Green Pass (che non a caso si chiama “Green”) un “coprifuoco energetico ed ecologico” per poterle meglio ammirare.
A chi effettua una donazione invierò in segno di ringraziamento i primi tre video della inchiesta sul Wef qui presentati: