
Dopo la grottesca censura di un corso su Dostoevskij, all’Università La Bicocca, i responsabili si sono giustificati in modo ancor più ridicolo sostenendo che avevano solo sospeso l’iniziativa, in attesa di inserire qualche scrittore ucraino, per una sorta evidentemente di “par condicio nazional-letteraria”. Questi scrittori ucraini evidentemente non li conoscevano e ho così pensato di raccontare la storia di uno di loro, che peraltro ne rappresenta parecchi altri. Temo, però, che questa vicenda risulterà indigesta sia a chi ha scatenato la cosiddetta e ridicola “russofobia”, sia a chi contro la “terribile” minaccia della “russofobia” sta sbraitando da giorni, mettendo forse da parte ben più seri problemi. E questo perché la storia dei popoli e degli uomini, quando ha il suo autentico e tragico volto e non è quella edulcorata e manipolata che di solito circola, è sempre indigesta.
Ciò nonostante, questa vicenda voglio raccontarla ugualmente, almeno a chi ha lo stomaco forte e soprattutto la mente libera da pregiudizi e il cuore sgombro da passioni faziose, perché tra l’altro contribuisce a leggere in modo meno superficiale le cose attuali.
Il 13 maggio 1933, Mykola Khvylovy, il maggiore scrittore ucraino del suo tempo, si suicidò con un colpo di pistola alla tempia, dinanzi agli amici che aveva voluto raccogliere intorno a sé negli ultimi istanti di vita. Lasciò scritte in un biglietto queste parole:
“Oggi e un bel giorno di sole. Io amo la vita – non potete immaginare quanto. Oggi è il giorno 13. Ricordate che io ho una speciale attrazione per questo numero? È terribilmente doloroso. Lunga vita al comunismo. Lunga vita alla costruzione socialista. Lunga vita al Partito Comunista”.
Un mese prima, la polizia segreta aveva arrestato il suo amico fraterno, anch’egli scrittore, Mykhailo Yalovy, e questi, poco dopo era morto in carcere. Yalovy e Khvylovy avevano fondato anni prima una associazione di letterati ucraini, la Vaplite, che era stata una delle prime vittime della repressione staliniana e nel 1928 era stata sciolta. I suoi membri, tuttavia, avevano continuato l’attività, ma ora, nella primavera del 1933 e per i motivi che brevemente vedremo, Stalin aveva lanciato l’ultimo e definitivo atto della repressione.
Il biglietto lasciato da Khvylovy menzionava anche il suo amico, anzi incominciava proprio riferendosi alla sua tragica sorte:
“Arresto di Yalovy – questa è la morte di una intera generazione. E per cosa? Perché noi siamo i più sinceri comunisti”?
Quale era stato allora il peccato di questo scrittore, che moriva rivendicando il suo comunismo e inneggiando ad esso e allo stesso partito comunista? Il suo imperdonabile peccato era stato quello di volere una Ucraina sì comunista, ma orientata verso l’Europa e verso l’Occidente e non verso Mosca. Khvylovy, a metà degli anni Venti, come ricorda Andrea Graziosi, nella sua fondamentale Storia dell’URSS, aveva polemizzato contro chi, a Mosca, “voleva spingere la cultura ucraina verso il provincialismo, l’arretratezza e il servilismo culturale, riducendola a cultura di secondo rango per i villaggi”, a una cultura da Chochlandia. Questo termine va spiegato: chochol era il ciuffo di capelli alla cosacca ed era il nome spregiativo con cui i russi designavano gli ucraini. L’orientamento della cultura ucraina verso Occidente non doveva passare, secondo Khvylovy, per la mediazione russa, anche perché per gli ucraini Mosca rappresentava “un passato di oppressione”.
In tal modo, Khvylovy era finito ascritto d’ufficio alla corrente “eretica” dei cosiddetti “nazionalcomunisti”.
Eppure, le ultime parole dello scrittore erano sincere: egli si era entusiasmato per la rivoluzione bolscevica, ma aveva forse vissuto la stessa parabola tipica di certi suoi personaggi letterari, di solito membri dell’”intelligencija”, la cui iniziale infatuazione per la rivoluzione era finita in disillusione, allorché l’attesa rinascita dell’Ucraina, dall’abisso dell’epoca zarista, si era risolta in una nuova forma di “irriducibile zoticheria” [vedi racconti come Redaktor Kark’ (Editor Kark), ‘Na hlukhim shliakhu’ (On the Overgrown Path), e ‘Synii lystopad’ (Blue November)].
Khvylovy era stato anche, imprudentemente, molto attivo nella organizzazione letteraria: aveva fondato e diretto associazioni, influenzato altri giovani scrittori. In particolare, nel 1925 aveva fondato la già citata Vaplite, la “Libera accademia della letteratura proletaria”, che contava fra i suoi membri gli scrittori di maggior talento del tempo, nel suo paese. L’Accademia ebbe brevissima vita, ma i guai con il potere sovietico per lo scrittore erano già cominciati, quando era passato a soggetti più “realistici. Del romanzo Val’dshnepy (Woodcocks), fu ad esempio pubblicata solo la prima parte, sulla rivista della stessa Vaplite, perché la seconda parte, già stampata, fu sequestrata e distrutta.
Fatale a Khvylovy – e a Vaplite – fu però soprattutto la sua attività di brillante polemista e pamphletista. Khvylovy accese, tra il 1925 e il 1928, un dibattito sulla “questione letteraria ucraina”. La prima fase della querelle, ruotò intorno alla domanda posta dallo scrittore: “Europa o illuminismo”? Per illuminismo, riferendosi al Settecento di Caterina la Grande, egli intendeva una Ucraina che restava provinciale e arretrata sotto l’oppressione russa. Per cui, alla domanda rispondeva: “riguardo all’arte, la risposta può essere solo: Europa”. In una seconda serie di interventi, Khvylovy chiariva che un orientamento intellettuale verso l’Europa poteva condurre gli Ucraini ad intraprendere un proprio cammino di progresso, cammino al quale avevano pieno diritto: dopo una vana, secolare aspirazione all’indipendenza, l’Ucraina doveva manifestare e sviluppare pienamente la sua identità nazionale (non nazionalistica!). Ciò però richiedeva il superamento della dipendenza culturale e mentale da Mosca, perché, scriveva, “una nazione può esprimere se stessa culturalmente solo se trova il suo proprio, unico cammino di sviluppo”.
La terza e ultima fase della polemica, scivolò pericolosamente dal terreno culturale a quello esplicitamente politico. L’idea di una piena sovranità culturale non poteva che portare Khvylovy ad affermare il diritto a una sovranità politica, sebbene – questo non era in discussione – nell’ambito dell’URSS. La Russia è uno stato indipendente nell’URSS, si chiedeva lo scrittore? Sì, rispondeva: ebbene anche noi ucraini siamo allora indipendenti.
A questo punto, gli attacchi a Khvylovy e agli altri scrittori “nazionalcomunisti” divennero feroci: Khvylia, dirigente politico fedele a Stalin e giornalista, definì la prosa di Khvylovy, “antipartitica, controrivoluzionaria e perfino fascista”. A questo punto, l’élite politica e intellettuale ucraina si spaccò in due fazioni: i “nazionalcomunisti”, esponenti politici e del mondo intellettuale, che si schierarono con Khvylovy, e dall’altro lato i suoi antagonisti letterari e i dirigenti politici fedeli a Mosca. Le direttive di Stalin erano del resto chiare: in una lettera a Kaganovic, segretario del partito comunista ucraino, il dittatore aveva ammonito il comitato centrale del partito a non adottare l’orientamento filo-occidentale dello scrittore, condannandolo come “nazionalismo borghese”.
Arriviamo così al capitolo più triste, prima del tragico epilogo. Il linciaggio morale a cui era esposto indusse Khvylovy a passare gradualmente da un atteggiamento di attacco a una tattica difensiva. Nel vano tentativo di evitare la soppressione di Vaplite, nel dicembre del 1926 fu indotto ad ammettere i suoi “errori” e successivamente a lasciare l’Associazione, insieme a Yalovy. Un anno dopo, si trasferì prima a Berlino e poi a Vienna, e da qui, prima di far ritorno in Ucraina, cercò di completare la sua “autocritica”, inviando una lettera aperta al giornale Komunist , nella quale rinnegava il suo slogan “Via da Mosca” e tutte le sue tesi. Ma era un’abiura tattica e non una resa: nel 1928 fondò un periodico indipendente, Literaturnyi iarmarok, che riprendeva e continuava la linea della ormai disciolta Vaplite. Due anni dopo anche questa rivista fu costretta alla chiusura, ma l’indomito Khvylovy ispirò un’ultima iniziativa letteraria: il Prolitfront. Da parte sua, non vi pubblicò lavori letterari, ma solo articoli polemici contro l’Associazione di Tutti gli Scrittori Proletari Ucraini (VUSPP), l’associazione ortodossa e stalinista che attaccava il presunto “nazionalismo borghese” del gruppo di Vaplite. Khvylovy aveva ormai ripreso apertamente la sua battaglia. Il Prolitfront sopravvisse solo alcuni mesi e fu sciolto. Khvylovy dovette amaramente assistere al passaggio alla VUSPP di molti degli autori che aveva raccolto intorno alla sua ennesima iniziativa.

A questo punto, non aveva più alcuno strumento di diffusione delle sue idee. Fallirono anche i suoi tentativi di scrivere su temi approvati dal partito: all’inizio degli anni Trenta non aveva più alcuna possibilità di lottare e questo proprio mentre si realizzava lo sterminio per fame del suo popolo – l’Holodomor – e, nel contempo, la soppressione definitiva della classe politica e intellettuale nazionale.
Sebbene, infatti, questa pagina di storia continui ad essere poco nota, mistificata o riletta in modo riduttivo (per lo più si crede che deportazione e sterminio riguardassero solo i kulaki, ossia una minoranza di contadini proprietari, recalcitranti alla collettivizzazione, e quando si conosce e si evoca la terribile carestia la si ritiene semplicemente un tragico incidente della politica di pianificazione), Stalin approfittò della carestia scatenata dalla stessa sua politica, per risolvere al suo modo, ossia per liquidare politicamente e anche fisicamente, le due questioni che, nella visione espressa già da anni, erano per lui strettamente connesse: la questione contadina e la questione nazionale (ucraina, ma anche di altri popoli come i kazaki). D’altra parte, che insieme ai contadini cadessero vittima, direttamente o indirettamente, del terrore anche i dirigenti politici e gli scrittori ucraini, già bollati come “nazionalcomunisti”, era un esito scontato.

Dirigenti del PC ucraino e intellettuali si rifiutavano spesso di aderire alla linea ufficiale sulla carestia che, pubblicamente e ufficialmente si esprimeva così: la carestia non esiste ed è una invenzione – una fake-news, diremmo oggi – dei controrivoluzionari; e nel dibattito interno al Pcus si risolveva invece in questa altra posizione: la carestia c’è, ma la colpa è dei contadini pigri e ladri e non del partito, e comunque la cosa è molto ingigantita dai soliti controrivoluzionari.
Molti dirigenti comunisti ucraini – tra i quali Skrypnyk, che, come Commissario per l’Educazione dal 1927 aveva svolto una infaticabile opera per la ucrainizzazione culturale e letteraria e per la salvaguardia della lingua ucraina, fiancheggiando e sostenendo il gruppo di Veplite – non se la sentivano, però, di avallare queste infami menzogne. Talora, credevano, ingenuamente, che la vera dimensione del dramma e le sue effettive origini fossero effettivamente sconosciute a Mosca e a Stalin. Skrypnyk si recò anche personalmente da Stalin, che però aveva già inviato un suo commissario in Ucraina, Postysev, per “normalizzare” il partito e la cultura. Skrypnyk fu quindi violentemente attaccato nel Comitato Centrale e fu deposto dalla carica di Commissario all’Educazione. Postysev arrivò a scrivere che certi cambiamenti che Skrypnyk aveva introdotto nella ortografia della lingua ucraina per standardizzarla erano “sintomatici di un profondo spirito controrivoluzionario”. Skrypnyk, come scrive Graziosi, era ormai così disperato che pensò di tornare da Stalin per raccontargli “tutto”, ma fu dissuaso dalla moglie, che minacciò di lanciarsi dalla finestra se lo avesse fatto. Accettò, invece, di recarsi il 7 luglio del 1933 alla riunione dell’Ufficio politico nel quale avrebbe dovuto riconoscere i suoi “errori”. Ma non resse e lasciò la riunione prima della conclusione, per ritirarsi nel suo ufficio e suicidarsi.
Qualche mese prima, come abbiamo già ricordato, un altro colpo di rivoltella aveva messo fine alla vita di Khvylovy, in un gesto che egli aveva probabilmente ritenuto simbolico del fato della sua nazione. Come è stato poi scritto, se Khvylovy aveva premuto il grilletto, era stata Mosca a mettere nelle sue mani il revolver.
Subito dopo la morte, furono bandite le opere e lo stesso nome dello scrittore. Persino dopo la “destalinizzazione”, quando tanti altri scrittori furono “riabilitati” e alcune loro opere pubblicate, gli scritti e le idee di Khvylovy restarono al bando. I suoi seguaci e amici erano intanto caduti a loro volta vittima del terrore staliniano o erano stati costretti a “convertirsi”. Alcuni di loro approfittarono però della guerra per emigrare negli USA, dove fecero conoscere le opere di Khvylovy. In patria, invece, una prima loro edizione completa ha visto la luce solo nel 1991, dopo l’indipendenza del paese e il crollo dell’URSS.
Il problema nazionale ucraino, con il delicato corollario della collocazione del paese tra Mosca e l’Europa, non è però stato mai risolto, perché quando viene posto, come aveva cercato di fare Khvylovy, si scatenano – oggi da due fronti e anche da quello verso cui lo scrittore era orientato – micidiali attacchi politici – e pure militari – e ingerenze con il loro immancabile corredo di strumentalizzazioni, manipolazioni, mistificazioni e vere, spudorate menzogne.
Sarebbe il caso che almeno le menti libere e aperte ragionassero con calma ed equilibrio e cercassero di conoscere il retroterra storico delle vicende attuali, senza sottovalutare in modo sbrigativamente irridente, la tragica eredità che quel retroterra ha depositato nella memoria di alcuni popoli, come quello ucraino.
Le citazioni sono tratte da:
- Graziosi, Storia dell’Unione Sovietica. L’URSS di Lenin e Stalin (1914-1945), Bologna 2007
http://www.encyclopediaofukraine.com/display.asp?linkPath=pages%5CK%5CH%5CKhvylovyMykola.htm
Per la tragica vicenda dell’Holodomor
Per una ricostruzione storica del conflitto russo-ucraino
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