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LE RADICI STORICHE DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO

Le valutazioni e i commenti che si fanno sulla crisi russo-ucraina, sono tutte calibrate sulla stretta attualità e scontano la diffusa ignoranza del secolare retroterra storico del conflitto, che in tal modo viene ridotto a una partita “Nato contro Putin”. Ne consegue, spesso, il “tifo politico” pregiudiziale per l’uno o l’altro giocatore.

Una valutazione obiettiva, pur limitata angustamente all’attualità, dovrebbe peraltro almeno riconoscere quanto segue: è in atto, dal crollo dell’URSS, una espansione della Nato nell’Est Europa, che ha portato l’organizzazione a inglobare tutti i paesi del vecchio Patto di Varsavia, con le uniche eccezioni di Serbia, Bosnia, Montenegro e Kosovo. Questa espansione ha riguardato, nel 2004, anche le tre Repubbliche Baltiche, che erano state annesse all’URSS da Stalin. L’adesione dell’Ucraina alla Nato segnerebbe evidentemente un ulteriore salto di qualità, perché riguarderebbe una Repubblica che entrò nell’URSS già all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre (non proprio “spontaneamente” e pacificamente, come vedremo). Putin evidentemente intende difendere e se possibile recuperare territori e sfere di influenza che erano dell’URSS e prima ancora dell’Impero degli Zar. Gli Usa e la Nato, invece, intendono continuare ad approfittare del crollo dell’URSS. Si tratta, da questo punto di vista, di niente altro che della vecchia politica di potenza, dall’una e dall’altra parte. E nella logica della tradizionale realpolitik, non è affatto detto che mostrare i muscoli – schierare truppe e missili – significhi essere decisi alla guerra: si può trattare di prove di forza per raggiungere un accordo da migliore posizione. D’altra parte, è anche ben noto che questo gioco spesso sfugge di mano ai suoi autori e la guerra scoppia sul serio: l’episodio più tragico fu quello dell’estate 1914.

Nella contesa Nato (USA)- Russia si inseriscono poi altri attori: non certo l’UE, che come al solito è una nullità in politica internazionale, ma la Francia e la Germania, che cercano, in modo diverso, di ritagliarsi un ruolo autonomo nella vicenda; la Cina, che sembra intenzionata a sostenere la Russia in funzione antiamericana (ma è sempre difficile decifrare le intenzioni cinesi)

Quanto sopra riguarda però gli Stati e i governi, ma che cosa si può dire dei popoli e della loro autodeterminazione? Quale sia la volontà dei rispettivi popoli è difficile dirlo, dato che parliamo di due paesi che non sono propriamente modelli di democrazia. Quel che è certo, è che solo una attenta ricostruzione storica delle secolari radici del conflitto può consentire di soppesare criticamente le ragioni e le motivazioni profonde dell’una e dell’altra parte. E’ quindi necessario sottrarsi alla attualità banalizzante.

Le comuni origini di russi e ucraini dalla Rus’ di Kiev

cartina tratta dall’atlante storico interattivo GeaCron
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Si potrebbe parlare di una comune origine di russi e ucraini dallo stato della Rus’ di Kiev, fine IX secolo.

La parola Rus’, di probabile origine finnica, indicava i popoli nordici, venuti da Oltremare. Si trattava di coloni e guerrieri di stirpe germanico-settentrionale (vichinghi, secondo l’accezione comune) che attraversando il Baltico si stabilirono nelle regioni orientali popolate dagli slavi e costituirono una élite politico-militare. Il primo centro occupato, di strategica importanza per i commerci, fu quello di Novgorod, a cui ne seguirono altri. Si arrivò così alla fondazione di una prima entità statale, tra la Duna e il Volga. Successivamente fu occupata la regione del Dnepr e il nome Rus′ venne a indicare anche lo stato di Kiev, che era stato fondato da altri “uomini del nord” (Normanni) immigrati in quelle regioni. L’élite di origine germanica andò rapidamente slavizzandosi e il nome Rus′ finì col comprendere tutte le stirpi slave orientali sotto dominio norreno, oltre che gli stessi uomioni di origine nordica.

La conversione al cristianesimo e la crisi tartara

Un passaggio cruciale fu la conversione al Cristianesimo sotto Vladimir I, nel 988. Il sovrano era di origine norrena, ma, slavizzato anche nella religione, adorava le divinità del pantheon slavo. La sua conversione fu in realtà provocata dall’Imperatore di Bisanzio, Basilio II. Fra la Rus’ e l’Impero bizantino vi erano intense relazioni commerciali, ma a un certo punto Basilio II ebbe bisogno anche dell’aiuto militare di Vladimir sul confine anatolico e contro popolazioni ostili. L’alleanza, come spesso accadeva, fu suggellata da una promessa di matrimonio, quello fra Vladimir e Anna, sorella dell’Imperatore. Vladimir, alla fine della vicenda, che conobbe anche momenti di rottura tra le due parti, sposò effettivamente Anna, ma dovette battezzarsi. Su questa cerimonia – in realtà nelle fonti si trovano tre diversi battesimi di Vladimir – abbiamo ricostruzioni agiografiche, di maniera. Quel che è certo è che, anche se la effettiva cristianizzazione del paese procedette molto lentamente, l’influenza culturale bizantina divenne da quel momento notevolissima.

Nell’XI secolo vi fu però un periodo di decadenza, con il principato di Kiev esposto alle razzie delle popolazioni nomadi e in preda a una crisi economica. A metà secolo la Rus’ di Kiev si disgregò in vari principati indipendenti e per la prima volta apparve il nome di Ucraina, usato per indicare il territorio soggetto a Perejaslav.

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Più tardi, nel XIII secolo, l’invasione dei Mongoli (o Tartari dell’Orda d’Oro) sconvolse l’area (Kiev fu devastata) e i vari principati slavi, anche se non furono direttamente occupati, furono ridotti a stati vassalli e tributari degli invasori

La divaricazione delle rispettive tradizioni nazionali e i due “miti fondativi”

Queste comuni origini, in cui russi e ucraini sembrano confondersi in una entità indistinta, sono state però diversamente ricostruite e raccontate a partire dall’età romantica, nei reciproci “miti fondativi” dei due popoli, a cominciare proprio dall’evento del battesimo di Vladimir, che è il battesimo dei Rus’ – e quindi dei “russi” – per gli uni, il “battesimo dell’Ucraina” per gli altri.

L’origine della divaricazione fra le due tradizioni è però nella diversa valutazione del ruolo storico del principato di Novgorod (talora impropriamente definito anche come Repubblica di Novgorod) e dei suoi rapporti con la Rus’ di Kiev. Nell’ottica russa, Novgorod si mantenne indipendente nel drammatico periodo della dominazione tartara, salvaguardando e tramandando l’eredità della Rus’ e ponendo le basi per la fondazione della Russia moderna. Nell’ottica ucraina il principato settentrionale di Novgorod si staccò da Kiev e, come si legge in un sito filo-ucraino (http://www.juramax.com/article.php?id=22) “il popolo si mischiò con i finlandesi e i popoli asiatici, perdette la sua cultura autentica, e formò lo stato Moscovia che poi venne chiamato Russia”. Intanto, il territorio ucraino finì in parte sotto la dominazione tartara, in parte – la regione occidentale della Galizia – sotto quella polacca, per cui, si legge nella stessa ricostruzione di parte ucraina, “da questo periodo e fino al XX secolo il popolo ucraino divenne nazione senza lo stato organizzato”.

Come andarono realmente le cose? Novgorod effettivamente riuscì a salvarsi dalla devastazione tartara, perché gli invasori non si avventurarono sul suo territorio paludoso, e non dovette sottostare ad essi nella vita politica e commerciale, ma fu comunque costretta a pagare tributo, come i principati slavi a sud. Novgorod continuò a combattere essenzialmente i nemici baltici e settentrionali, lituani, danesi, cavalieri teutonici e in questo contesto si colloca l’epopea di Aleksandr Nevskij, che riportò una importante vittoria contro gli Svedesi sul Neva proprio mentre Kiev veniva distrutta.

Comunque, dal momento dell’invasione tartara, la storia dei due popoli effettivamente si separò, per poi tornare a incrociarsi, drammaticamente, nell’età contemporanea.

L’ascesa della Russia

La formazione della Russia e la sua ascesa a grande potenza europea si realizzarono attraverso alcune principali tappe. La prima di queste vede l’emergere del Principato di Moscovia e della città di Mosca in posizione dominante rispetto agli altri principati e città. Ciò fu dovuto innanzitutto al ruolo di esattori delle tasse per conto dei tartari dell’Orda d’Oro che era stato assegnato ai principi di Mosca, ruolo sul quale lucrarono e che consentì loro anche una progressiva espansione territoriale. Altro fattore decisivo fu il trasferimento del metropolita ortodosso da Kiev, devastata e decaduta, a Mosca. Il principato divenne così un granducato, poi un regno e infine un impero, assumendo anche, dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, il ruolo di centro della cristianità greco-ortodossa.

Altra tappa fondamentale si ebbe con Ivan III il Grande, che decretò la fine definitiva del vassallaggio nei confronti dei Tartari e lanciò la costruzione ideologica della Russia come “Terza Roma”. Ben presto, con Ivan IV il Terribile, i principi di Russia si fregiarono del titolo di Czar – da Caesar – rivendicando l’eredità romano-bizantina e fondando su questa base una monarchia assoluta di diritto divino. Nello stesso tempo, fecero leva sulla identità etnico-linguistico-religiosa del loro paese per assumere o rivendicare un ruolo di patronaggio nei confronti di tutti i popoli slavi e cristiano-ortodossi. Questa ideologia panslavista e panortodossa avrebbe orientato fino alla Prima Guerra Mondiale la politica russa, con importantissime conseguenze sulla storia europea.

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Nel 1613, dopo un periodo di crisi, detto “dei torbidi”, fu fondata la dinastia dei Romanov e nel corso del secolo la potenza russa intervenne per la prima volta in Ucraina, per stroncare una rivolta contadina dalle tinte nazionalistiche. Ne parleremo più avanti.

Un ultimo passaggio decisivo si ebbe, alla fine dello stesso secolo, con Pietro il Grande, il quale modernizzò, in senso “occidentale”, il suo paese e lo inserì definitivamente nel gioco politico-militare del Continente europeo, come attore di primo piano. Ciò comportò il delinearsi di una fondamentale direttrice della politica estera russa: la ricerca dello sbocco al mare (Mediterraneo). Ciò poteva avvenire in direzione del Mar Nero e poi degli Stretti (Bosforo e Dardanelli) e in direzione dei Balcani. Nell’uno e nell’altro caso, l’antagonista era il declinante Impero Ottomano e la carta ideologica dei popoli slavi e cristiano-ortodossi sottoposti alla dominazione turco-islamica da proteggere e liberare diventava di fondamentale importanza.

Ma, disgraziatamente per gli ucraini, fra la Russia e il nemico Ottomano c’erano proprio le loro terre. I Turchi occupavano entrambe le sponde del Mar Nero e l’obiettivo russo fu subito, fin dalla prima guerra russo-turca alla fine del Seicento, la conquista della penisola di Crimea e di Azov, per la loro posizione strategica. Per arrivarci, però, i russi dovettero affrontare e sconfiggere i Cosacchi ucraini che, intanto, per fermare l’espansione russa si erano alleati con gli Svedesi, a loro volta nemici di Mosca nell’area baltica.

Nel corso del Settecento vi furono varie campagne di Crimea, antecedenti di quella guerra di Crimea di metà Ottocento a noi ben più nota per l’intervento del Piemonte di Cavour nell’ambito del Risorgimento italiano. La Crimea era un khanato di origini tataro-turche, formalmente indipendente, ma vassallo degli Ottomani. Nel 1775, in seguito ad una ennesima sconfitta subita dai turchi, il khanato entrò nell’orbita russa, Meno di dieci anni dopo, con il pretesto di conflitti interni, la Russia procedette all’annessione della Crimea. Da questo momento, ci fu una opera di russificazione della regione, quasi un milione di musulmani emigrarono e i tatari divennero una minoranza. Ma intanto la Russia aveva già occupato i territori orientali dell’attuale Ucraina e la restante sponda settentrionale del Mar Nero.

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In questa area l’espansione russa dovette fare i conti con la resistenza dei Cosacchi, popolazione seminomade di guerrieri e briganti, la cui origine etnica è molto discussa. I Cosacchi nell’area tra il Don e il Dnpr e, più a Oriente, verso il Volga, accettarono anche il ruolo di difensori dei confini dell’Impero e della religione cristiano-ortodossa, ma non si mostrarono mai completamente affidabili, per la loro insofferenza all’autorità e il loro spirito libero. Più volte si sollevarono in grandi rivolte, unendosi spesso ai contadini ucraini e assumendo il ruolo di loro difensori. La più celebre di queste rivolte fu quella capeggiata da Pugaciev e stroncata con una feroce repressione dalla zarina Caterina. Fu anche l’ultima rivolta cosacca. Da questo momento incominciò anche in questa area, come in Crimea, un’opera di russificazione, anche attraverso l’emigrazione. Nella rappresentazione nazionale ucraina, il periodo dell’influenza cosacca intorno al Dnpr e al Don viene considerato quello della formazione di un vero stato ucraino-cosacco e il periodo seguito invece alla repressione viene definito “la rovina”.

Gli Ucraini dello Stato polacco-lituano

La parte centro-occidentale dell’Ucraina aveva però conosciuto una storia diversa e separata, sotto la dominazione polacco-lituana, alla quale ora è necessario accennare.

Fra il XIV e il XV secolo si formò, peraltro casualmente, una unione dinastica polacco-lituana sotto la famiglia degli Iagelloni che doveva dar vita a uno dei più importanti Stati dell’Europa tardo-medioevale. È una storia a noi poco nota, colpevolmente sottovalutata. Per dare solo un’idea, ecco alcune annotazioni.

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Alla fine del Quattrocento, l’entità statale polacco-lituana governata dagli Jagelloni si estendeva su un terzo dell’Europa, dal Baltico al Mar Nero, dal cuore della Russia all’Europa centrale. Verso la metà del XV secolo si affermò il fondamentale principio del Neminem captivabimus nisi iure victum, un equivalente dell’Habeas corpus inglese, che attestava il diritto a non essere detenuti senza processo. Inoltre, si affermò il principio che poi sarà definito nel mondo anglosassone come no taxation without representation. La Polonia-Lituania aveva una collocazione geografica strategica per i grandi commerci dell’epoca, fra Mediterraneo e Baltico e fra Oriente e Occidente. Per alcuni secoli i vantaggi di questa posizione furono inestimabili, prima che il sorgere delle potenze politiche tedesca e russa rovesciassero la situazione trasformando in una condizione di pericolo e debolezza quella che era stata una condizione così vantaggiosa.

Il Commonwealth polacco-lituano era sotto una dinastia di fede cattolico-romana, ma i cattolici erano una minoranza della popolazione, che era composta da un gran numero di cristiano-ortodossi e da una cospicua minoranza di rito armeno. Nel Cinquecento vi fu anche una notevole penetrazione del Calvinismo. Una parte della popolazione non era poi neanche cristiana, essendo costituita da ebrei, il cui numero si accresceva ad ogni ondata di antisemitismo in Occidente (per esempio dopo la cacciata dalla Spagna ordinata dai re Cattolici nel 1492), e persino da musulmani, discendenti dei Tatari. Nel paese vi erano un centinaio di moschee, a metà Cinquecento, e innumerevoli sinagoghe.

Nel XVI secolo, la Polonia era dunque il più esteso stato d’Europa, aveva sei lingue ufficiali (polacco, ebraico, bielorusso-lituano, latino, tedesco e armeno), aveva una popolazione di dieci milioni di abitanti, pari a quella dell’Italia e della penisola iberica, due volte quella inglese, due terzi di quella della Francia (che era la nazione più popolosa). Solo il 40% era costituito da polacchi. Gli ebrei costituivano il 10% della popolazione e in diverse città e villaggi erano predominanti. Avevano proprie istituzioni di governo e costituivano una sorta di stato nello stato. La Polonia cinquecentesca fu definita “il paradiso degli ebrei”. Nel corso dello stesso secolo vi trovarono rifugio anche gli eretici perseguitati da tutte le chiese: antitrinitari e sociniani. Nel 1573, il Sejm – l’assemblea della nobiltà – promulgò un atto veramente memorabile che anticipava di un secolo il principio della libertà religiosa che sarebbe stato proclamato negli statuti di alcune colonie inglesi d’America e che aveva all’epoca un parziale corrispettivo solo nella nascente Repubblica delle Provincie unite, ossia l’Olanda.

Non possiamo entrare qui nelle cause della repentina decadenza di questa grandiosa costruzione (anacronistica, però, nel periodo in cui si affermavano le monarchie assolute), ma possiamo soffermarci su quella che riguarda direttamente il nostro discorso: la mancata cooptazione dell’Ucraina e degli ucraini come terza entità dello Stato (un errore analogo a quello che fecero più tardi gli Asburgo, rifiutandosi di associare gli slavi alla monarchia “dualistica” austro-ungarica). L’Ucraina fu trattata come una sorta di colonia – non bisogna tacere il fatto che quei nobili polacco-lituani così gelosi della propria libertà erano poi spesso crudeli oppressori delle persone a loro soggette – e alla fine la tensione esplose nella rovinosa rivolta dei cosacchi a metà Seicento, corrispettivo e antecedente nella parte occidentale del territorio ucraino a quella che sarà oltre un secolo dopo la citata rivolta di Pugacev più a Oriente. La rivolta lasciò uno strascico di repressione, devastazione, fame e miseria.

Nella storia polacca, peraltro, fu solo il tuono che preannunciava il “diluvio” come fu detta la seconda guerra del nord. Alla fine di questa catastrofe si mise finalmente mano al progetto del trialismo, ma non se ne fece nulla. Prevalse il mutuo interesse di Russia e Polonia di stroncare per sempre la minaccia cosacca. E così alla fine i due acerrimi nemici si accordarono per spartirsi il controllo dell’Ucraina, ma la Polonia che era stato il maggiore sconfitto della guerra dovette cedere alla Russia tutto il territorio ucraino ad est del Dnpr, compresa la città di Kiev.

Il crollo dell’entità polacca si ebbe nella seconda metà del XVIII secolo, quando in tre successive fasi i tre giganti confinanti – Russia, Prussia e Austria – se ne spartirono tutto il territorio. Gli ucraini furono ancora una volta divisi tra Russia e Austria e la sorte migliore toccò in fin dei conti a quelli della provincia della Galizia che entrarono nell’impero multietnico asburgico, più tollerante dell’impero degli zar con le diverse nazionalità e capace di sostenere la vita economica e di incentivare l’istruzione. Dall’altra parte, invece, e soprattutto nella seconda metà del XIX secolo, nella fase estrema di irrigidimento e chiusura su sé stessa dell’autocrazia zarista, la repressione della nazionalità ucraina toccò il culmine- Nel 1876 fu vietata ogni manifestazione ed espressione in lingua ucraina. L’ucraino venne considerato solo un dialetto della lingua russa. Lo stesso nome di Ucraina fu soppresso e la provincia fu battezzata “Malorussia”, cioè “Piccola Russia”.  L’intellighenzia ucraina fu imprigionata o deportata e l’emigrazione russa nella regione toccò le punte più alte.

La questione ucraina nell’epoca sovietica

La questione ucraina entrò così in una lunga fase di sonno fino al crollo dell’Impero dei Romanov e di quello Asburgico. Nella caotica situazione successiva alla Rivoluzione d’Ottobre, gli ucraini ebbero ottime carte per puntare all’indipendenza, ma queste carte furono giocate male. L’Ucraina fu certamente il principale centro di resistenza anti-bolscevica, ma questa resistenza si articolò in tre diversi movimenti, reciprocamente ostili e senza alcuna possibilità di creare un fronte comune.  

A Kiev si formò all’inizio del 1918 una Repubblica popolare ucraina, prima sostenuta dall’Impero Germanico e poi, dopo la fine della Prima guerra mondiale, alleata della Polonia del Maresciallo Pilsudski. I bolscevichi si ritirarono nella regione orientale più russificata e proclamarono una Repubblica Sovietica. Il territorio della Repubblica popolare ucraina divenne però anche una roccaforte dell’Armata Bianca, formata da forze controrivoluzionarie e che volevano la restaurazione degli zar. Infine, l’Ucraina fu anche il principale centro delle forze rivoluzionarie antibolsceviche e vi agì il leader anarchico Machno.

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L’Armata Rossa riuscì a stroncare fra il 1919 e il 1921 sia l’Armata Bianca che le milizie di Machno. L’ultima possibilità di una soluzione della questione ucraina diversa dalla sovietizzazione fu legata al tentativo del maresciallo Pilsudski, protagonista delle vicende postbelliche. Il suo progetto era audace, ma non privo di realismo politico. Pilsudski era contrario a una Polonia come stato nazionale su base etnica, come stato nazionale dei polacchi, quindi. Questa piccola Polonia non avrebbe potuto sopravvivere, a suo avviso, con una Russia o URSS che possedeva Ucraina, Lituania e Bielorussia. Il suo obiettivo era quindi quello di una unione federale fra Polonia, Lituania e Ucraina. Il progetto incominciò però a naufragare con i Lituani, che diffidavano dei polacchi e volevano ormai un proprio stato. Con Ucraina e Bielorussia sembravano esserci migliori prospettive, ma tutto ora dipendeva dall’evolversi della situazione in Russia. Pilsudski sapeva che strappare queste regioni ai bolscevichi sarebbe stato difficile, ma la questione si sarebbe chiusa del tutto se in Russia avesse prevalso la controrivoluzione dei cosiddetti “bianchi”, che volevano restaurare il vecchio impero. Così, Pilsudski evitò di intraprendere qualsiasi iniziativa nei confronti dell’Ucraina finché fu in corso questa guerra civile, in quanto essa avrebbe danneggiato i bolscevichi e favorito i “bianchi”. Quando questi furono sconfitti, nel 1919, e i bolscevichi si prepararono, almeno nei loro proclami, ad estendere la Rivoluzione in Occidente, attraverso la Polonia quindi, Pilsudski pensò di cogliere l’opportunità favorevole: un attacco ai bolscevichi poteva esser presentato come una iniziativa volta a bloccare la rivoluzione, ad abbatterla, possibilmente, o quantomeno a costituire un forte stato cuscinetto fra l’URSS e il resto d’Europa. In tal senso, esso poteva avere l’appoggio delle altre potenze europee e degli stessi USA. Pertanto, strinse un’alleanza con i nazionalisti ucraini e attaccò i russi. Dopo i primi successi, le cose volsero male, sia sul terreno militare, per la controffensiva dell’Armata rossa, sia su quello politico. Le potenze democratiche non dettero alcun appoggio a Pilsudski e i nazionalisti ucraini si rivelarono troppo deboli. Pilsudski fu indotto dagli alleati dell’Intesa, che non poteva certo inimicarsi, a una pace di compromesso. La Galizia passò alla Polonia, stato ricostituito su base multietnica, ma dove vi era chiaramente una etnia dominante e se le minoranze non erano attivamente discriminate, di fatto non godevano nella vita civile ed economica di una vera parità.  Gli ucraini erano trattati come cittadini di seconda classe. La restante e maggior parte dell’Ucraina entrò a far parte ufficialmente dell’URSS, nel 1922, come repubblica socialista sovietica.

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La tensione fra la dirigenza sovietica e i nazionalisti e contadini ucraini covò sotto la cenere per esplodere tragicamente all’inizio degli anni Trenta, con il consolidarsi del regime staliniano. Stalin si servì della paurosa carestia, conseguenza della fallimentare politica di collettivizzazione agricola, per risolvere nel modo più spietato sia la questione contadina che la questione nazionale ucraina. Fu l’Holodomor, un genocidio sostanzialmente rimosso dalla memoria storica e che merita un approfondimento a parte, anche perchè vi si intravede, se non nella sua attuazione nel modo in cui la vicenda fu deformata dalla propaganda di regime, un .tipico elemento dei totalitarismi di ogni tempo e forse non estraneo anche ai nostri tempi: la costruzione di una realtà fittizia

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Nel 1941, con l’”Operazione Barbarossa”, l’Ucraina fu occupata dalle truppe naziste. La misura del risentimento ucraino nei confronti del potere sovietico, un risentimento che a sua volta si innescava su quello di ben più lunga data nei riguardi dei Russi, è data dalla tragica collaborazione di una parte della popolazione con gli occupanti nazisti:  30.000 ucraini si arruolarono nelle Waffen-SS  e si formò, nell’ottobre del 1942, un Esercito Insurrezionale Ucraino, nazionalista e indipendentista, che operò come forza di guerriglia contro l’Armata Rossa. È un’altra vicenda dimenticata che non si può assolutamente liquidare come “collaborazionismo”, perché ben presto, resisi conto delle reali intenzioni di Hitler, i nazionalisti ucraini si sollevarono anche contro i tedeschi. Dopo il successo dell’Armata Rossa, nel 1944, continuarono la lotta per l’indipendenza per diversi anni, anche dopo la fine della guerra, arrivando ad uccidere in un attentato il generale sovietico Vatutin e subendo l’offensiva e la repressione sovietica. Ciò che pure è largamente rimosso e che non si può proprio tacere è però la collaborazione dei nazionalisti ucraini con i tedeschi per il rastrellamento e lo sterminio degli ebrei – come avvenne anche in Bielorussia e nei paesi baltici – sulla base di un radicato antisemitismo popolare.

Nel 1954 nell’ambito del processo di “destalinizzazione”, Chruščëv decise l’annessione della Crimea alla Repubblica Ucraina togliendola alla Russia. L’inusitato provvedimento, che doveva avere un impatto all’epoca inimmaginabile sulla recentissima recrudescenza del conflitto, era motivato sostanzialmente da preoccupazioni di ordine economico – si voleva integrare più strettamente l’economia della Penisola a quella ucraina e in particolare Chruščëv sperava in un rilancio dell’agricoltura – ma venne enfaticamente e molto ipocritamente presentato come la celebrazione dei “300 anni di amicizia tra Ucraina e Russia”. Il leader sovietico meglio di chiunque altro poteva in effetti rendersi conto di come fosse necessario sanare la rottura tra i due popoli: la sua famiglia, di origine contadina, si era trasferita molto presto in Ucraina, dove egli era cresciuto e dove aveva fatto carriera nel PCUS, contribuendo peraltro nel 1938 a stroncare le ultime manifestazioni del nazionalismo ucraino.

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Le vicende successive al crollo dell’URSS e alla nascita di una Ucraina indipendente sono più note, ma vanno ora lette alla luce di questo retroterra storico. È molto significativo, ad esempio, che come nei secoli scorsi l’offensiva russa sia incominciata con la riannessione della Crimea e che il terreno di scontro sia nel Donbass una delle regioni più “russificate” in passato.

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