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“TI RICORDI DI ARCHILOCO”?

Oggi è stato il mio ultimo giorno di scuola. Non so quando tornerò a varcare la porta di una scuola, a sedermi dietro una cattedra. Forse non accadrà mai più. Quando sono uscito, dopo pochi passi ho avvertito l’impulso di girarmi indietro. Non l’ho fatto: conosco la storia della moglie di Lot.

Il fatto è che quella che oggi abbandono non è una scuola qualsiasi e non è solo la scuola dove ho lavorato negli ultimi anni. In questo liceo vi sono entrato nel 1976, da studente. E si può dire che non fossi mai andato via da qui, neanche negli anni dell’università, del dottorato, e poi nei lunghi anni in cui ho insegnato in altre scuole. Non me ne ero mai andato, perché tanta parte di ciò che sono si è formata dentro quelle mura, in quelle aule e qui davanti, su questa strada. Più che mai oggi mi è parso di sentire le voci dei compagni di allora, dei professori di allora. E nella mente ne ho rivisto i volti.

Anche perché oggi sono uscito dal retro, dove ora c’è il parcheggio, c’è un prefabbricato che ospita alcune aule, ma a quel tempo c’era invece un campetto di basket. E là in una giornata di neve facemmo una indimenticabile partita a pallone, sguazzando nella neve, scivolando, cadendo, rialzandoci, ridendo. Fu uno dei giorni più felici dei nostri anni scolastici.

Mi pare di vederli anche adesso, i miei compagni e amici di allora, su questa strada, la via del Liceo classico. Non sono loro questi passanti, ovviamente. Eppure oggi le persone hanno qualcosa di strano e di familiare e di caro. Strani, familiari e cari sono i loro vestiti, il loro modo di parlare, certe parole, certe espressioni che non sentivo più da tempo. E poi questa musica. Sì, lo so, l’amministrazione ha messo degli altoparlanti per strada, in occasione delle feste. Ma stanno sul Corso e qui siamo lontani dal Corso. E le canzoni che diffondono nell’aria sono diverse da questa melodia. Questo è Gluck, The dance of the blessed spirits, la danza degli spiriti beati.

Sull’altro lato della strada, una figura mi colpisce tra le altre, mentre la musica mi avvolge. Sta davanti la focacceria o almeno lì dovrebbe trovarsi, a quella altezza, se non che la focacceria non c’è più e c’è una libreria. La vecchia libreria del Parco. Pare che quella figura, quell’uomo, mi stia guardando, pare che mi stia facendo cenno. Mi decido ad attraversare la strada. Scavalco lo spartitraffico che nemmeno dovrebbe esserci, perché è scomparso da tanti anni, come del resto la libreria. Mi fermo un istante per lasciar passare un’auto – una vecchia auto d’epoca e chissà che ci fa qui – e riconosco chi è che mi sta aspettando davanti alla libreria. Non sono neanche stupito: è come se mi aspettassi di trovarlo qui, in questo giorno.

“Professore!”, grido.

Non risponde al saluto con la voce, ma mi sorride con una dolcezza struggente. Sta un attimo pensoso.

“Ti ricordi di Archiloco”? mi fa.

Di colpo mi sovviene ciò a cui da tanto non avevo più pensato.

“Sì, professore. Me ne ricordo”.

Non c’è altro da dire. Fa un passo verso di me, sempre con quel sorriso sul volto. Allargo le braccia, ci stringiamo forte per un istante. Poi tutto evapora: il mio professore, la libreria, la musica di Gluck. Neanche lo spartitraffico è più lì e la gente è tornata quella dei nostri giorni, con gli sguardi smarriti dietro le mascherine.

Mi incammino, con l’animo più forte di prima, e mi rivolgo al mio vecchio Professore, anche se non lo vedo più:

“Non ti ho tradito”.

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Era una di quelle giornate straordinariamente luminose che spesso l’inverno ci dona quando si appresta a passare il testimone alla nuova stagione. Era l’ultimo anno di quel decennio strabiliante, ingenerosamente legato nella memoria solo al piombo delle armi da fuoco. Lo attendevamo per l’ora di greco, ma tardò molto. Quando finalmente arrivò, capimmo subito che quel giorno non ci sarebbero state interrogazioni e neanche ci avrebbe letto e tradotto e commentato Erodoto, con una sapienza che ci sembrava sovraumana. Ci avrebbe tenuto uno dei suoi “discorsi”. Quei discorsi che, senza enfasi, senza deteriore retorica, ci stavano formando come uomini e donne, come esseri liberi che hanno il coraggio di pensare con la propria testa e non vanno dove li porta la corrente più forte e la via più comoda e non cercano il conforto rassicurante del gregge.  Si diceva che avesse avuto un alterco con il preside, per una sua “disobbedienza” o “indisciplina”, ma chissà se era vero. Quel che è certo è che ci parlò di Archiloco e dello scudo abbandonato del noto frammento. Abbandonare lo scudo era disonorevole, vergognoso, infamante, perché lo scudo serviva a proteggersi in battaglia, ma era anche molto pesante e lo si abbandonava solo per fuggire.

“O con questo o sopra di esso”, dicevano le madri spartane, nel salutare i loro figli che andavano in guerra. O torni con lo scudo dopo aver combattuto onorevolmente o torni morto, disteso e trasportato su quello stesso scudo. Ma Archiloco lo scudo un giorno lo abbandonò e rivendicò pure orgogliosamente il suo gesto di fronte alle critiche scontate, agli insulti che gli piovvero addosso.

Archiloco non era affatto un vigliacco, ci disse quel giorno del 1979 il nostro Professore. Quel suo gesto era la protesta contro la retorica della patria e dell’eroe, era la rivendicazione di valori più autentici e concreti. E per abbandonare lo scudo, in quelle circostanze, ci voleva più coraggio di quello che mostrava chi stava nel gregge e andava al macello in nome di vuoti principi, manipolati dai potenti. Archiloco non era un vigliacco: era un uomo. Era un vero uomo, ci disse il Professore. E come del resto poteva essere un vigliacco un uomo che, in altri suoi versi, esortava gli Ateniesi a reagire virilmente alla disgrazia che era loro precipitata addosso, a mostrare tlemosýne, straordinaria parola che indica l’accettazione rassegnata del fato, ma anche la resistenza, il coraggio, l’audacia. Che significa il patire sventure e sopportarle pazientemente, ma anche l’osare, e l’osare fino all’estremo, con un coraggio sfrontato e quasi temerario. Archiloco è un vero uomo: aveva ragione il nostro Professore. Superiore persino al grande Leonida, perché sa quale scudo si debba abbandonare e quale scudo sia invece quello del quale legittimamente si debba dire: “o con questo o su di questo”.

E a saper distinguere, io l’ho imparato da te, in quel luminoso inverno del 1979, o mio Professore.

Perciò, puoi tornare a danzare fra gli spiriti beati: non ti ho tradito.

E agli studenti di oggi, ai miei alunni, consegno la tua eredità.

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