Sull’obbligo di vaccinazione come dovere morale, civile, religioso e, in questo caso, professionale abbiamo ora una nuova brillante metafora, dopo quelle del semaforo e della patente di guida:
Il vaccino sarebbe «un requisito soggettivo essenziale per lo svolgimento della prestazione» lavorativa e si configurerebbe «come un onere a carico di chi deve possederlo o acquisirlo, come può essere, ad esempio, il porto d’armi per la guardia giurata».
A ritenere essenziale questo “porto d’armi sanitario” non è stavolta un giornalista o un virologo, ma il giudice del lavoro di Roma, nel respingere, in via cautelare, i ricorsi di tre sanitari sospesi dal lavoro e dalla retribuzione. Le tre sentenze – che sembrano peraltro corrispondere a un indirizzo comune a tutta la magistratura del lavoro (e non solo del lavoro) – confermano quanto si affermava in articoli precedenti: nel contrasto al regime sanitario vigente, lo strumento del ricorso giudiziario – benché imprescindibile in alcuni casi – è, da solo e in sé stesso, un’arma spuntata o arrugginita.
L’elemento in base a cui in questi e in altri casi i ricorsi vengono respinti (ripeto, in via cautelare, ma con motivazioni che sembrano precludere la possibilità di un esito favorevole nel giudizio definitivo) e che porta poi alla notevole metafora citata è il fermo convincimento da parte del giudice circa l’efficacia e la sicurezza dei vaccini. Su cosa fonda il giudice tale convinzione? Quando non ci si limita a citare assertivamente come evidenza scientifica acclarata, indiscussa e indiscutibile (con formule come “è noto”, “è notorio”) quella che è semplicemente la posizione dei medici e degli scienziati che trovano spazio nei media o che lavorano per i vari governi, posizione contraria a quella di altri e spesso più autorevoli medici e scienziati, ci si appoggia, come nel caso delle ordinanze in questione, a fonti politiche e non scientifiche o a fonti scientifiche comunque legate al potere politico. Così, il giudice del lavoro di Roma, sul fumus boni iuris, ritiene anzitutto necessario premettere, in linea generale, «che l’efficacia del vaccino anti-Covid è attestata dalla normativa primaria (art. 1, comma 457, L.n. 178/2020) e dal Piano strategico nazionale adottato con Decreto del ministro della Salute del 02.01.2021. La profilassi vaccinale, infatti, viene considerata dal legislatore e dalle autorità sanitarie efficace e fondamentale misura di contenimento del contagio».
L’efficacia del vaccino sarebbe quindi in primo luogo attestata dal legislatore stesso (in effetti dal governo, che su questa materia assume regolarmente l’iniziativa legislativa con lo strumento del decreto legge) e dal Ministero della Salute. Il giudice aggiunge poi che «è fatto notorio che la vaccinazione per cui è causa costituisce strumento idoneo ad evitare l’evoluzione della malattia», senza chiarire da quali ulteriori fonti si possa evincere la notorietà del fatto.
Subito dopo viene comunque citato il rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità secondo cui “gli studi clinici condotti finora hanno permesso di dimostrare l’efficacia dei vaccini nella prevenzione delle forme clinicamente manifeste di COVID-19, anche se la protezione, come per molti altri vaccini, non è del 100%. Inoltre, non è ancora noto quanto i vaccini proteggano le persone vaccinate anche dall’acquisizione dell’infezione». Il rapporto, che è peraltro datato e non tiene conto degli studi più recenti, dopo la diffusione della variante Delta, e dei dati di paesi come Regno Unito e Israele, riconosce che la vaccinazione potrebbe non proteggere del tutto dalla “malattia asintomatica” e che quindi i soggetti vaccinati potrebbero ancora ricevere e trasmettere l’infezione, ma che «è noto» (ancora) che i soggetti asintomatici (e tali si presumono i vaccinati contagiati, escludendo quindi che essi possano ammalarsi in modo serio e finanche morire, cosa che invece accade con la cosiddetta variante Delta) hanno una carica virale molto più bassa.
L’asserita efficacia del vaccino è dunque provata, secondo il giudice, oltre che dal legislatore e dal Ministero della Salute, da una istituzione sì tecnico-scientifica, l’Iss, che tuttavia è tutt’altro che politicamente neutrale essendo “sotto la vigilanza”, ossia alle dipendenze, del Ministero della Salute stesso.
Si realizza così un corto circuito: la legittimità dell’obbligo vaccinale imposto dall’autorità politica viene confermata dal giudice sulla base di fonti prodotte dalla stessa autorità politica o dalle istituzioni scientifiche da essa dipendenti.
Ma la parte più sconcertante della ordinanza è, a mio avviso, quella che riguarda la “sicurezza” del vaccino. Qui non viene citata alcuna fonte e si respingono le riserve sul carattere sperimentale del vaccino e sui gravi danni alla salute che potrebbe comportare con queste argomentazioni: riguardo al carattere sperimentale dei vaccini, «le autorità regolatorie hanno autorizzato la somministrazione vaccinale per larghe fasce di popolazione, circostanza che esclude l’asserita natura sperimentale del vaccino anti-Covid». Ossia, proprio l’autorizzazione condizionata concessa da Ema e Aifa, escluderebbe la natura sperimentale del vaccino! Un passo ancora – il giudice non lo compie questo passo, per fortuna – saremmo alla tesi diffusa in questi giorni: i vaccini non sono più sperimentali perché sono già stati sperimentati su miliardi di persone. Ossia: miliardi di persone hanno fatto da cavie. Magnifico!
Riguardo poi agli effetti a lungo termine, il giudice scrive che «allo stato non vi sono evidenze scientifiche che comprovino l’inadeguatezza dei vaccini attualmente in uso e il rischio di danni irreversibili a lungo termine». Vi è qui un inaudito rovesciamento del principio di precauzione: non si tratta più di escludere l’eventualità di danni irreversibili a lungo termine (o quantomeno di circoscriverne drasticamente l’eventualità), ma, al contrario, di provare la sussistenza di questi danni (il che in questo caso è manifestamente impossibile visto che i prodotti in questione sono in uso da pochi mesi). Pare che si istituisca l’onere della prova sulla dannosità del vaccino a carico di chi lo deve ricevere, invece che addossare a chi lo produce, a chi lo autorizza e a chi lo impone l’onere della prova sulla sua sicurezza. Secondo questa nuova sorprendente lettura del principio di precauzione, fino a che non sia dimostrato un grave danno a lungo termine, un farmaco si deve quindi reputare sicuro!
Quanto poi agli effetti a breve termine, aderendo alla narrativa della “nessuna correlazione”, il giudice scrive che «le reazioni avverse più frequenti (dolore in sede di iniezione, stanchezza, cefalea, mialgia e brividi) sono generalmente di lieve o moderata intensità e si risolvono entro pochi giorni dalla vaccinazione». Secondo l’avvocato Mori vi sarebbero invece alcuni casi accertati di morte in seguito a vaccino (a part i casi di gravi reazioni avverse) che benché siano numericamente pochi, sarebbero giuridicamente sufficienti a ritenere incostituzionale l’obbligatorietà, in base alla stessa sentenza Cartabia. Se il giudice ne fosse stato al corrente, avrebbe quindi dovuto investire la Consulta della questione.
Affermata la sicurezza e l’efficacia del vaccino, nel modo suddetto, l’ordinanza può poi procedere a chiarire, in modo lineare e conseguente, come la norma abbia introdotto in questo modo «una duplice qualificazione per quanto riguarda la vaccinazione nell’ambito del rapporto di lavoro: non solo in termini di obbligo “al fine di tutelare la salute pubblica”, ma anche di requisito essenziale per lo svolgimento appunto di determinate attività, al fine di “mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza da parte dei suddetti soggetti”». «Questa duplice finalità – salute pubblica, sicurezza nel luogo di lavoro – ha consentito al legislatore di qualificare la vaccinazione come requisito essenziale per lo svolgimento delle suddette prestazioni, e quindi anche come un onere per i lavoratori». E di qui il giudice ritiene evidentemente di far discendere, con ferrea logica, la metafora del porto d’armi della guardia giurata.
Ora, non mi interessa qui discutere di eventuali condizionamenti politici che potrebbero operare sulla magistratura e di quegli altri condizionamenti che potrebbero derivare da un clima sociale e mediatico ostile, talora ferocemente ostile, a chi per libera scelta decide di non vaccinarsi. Che la magistratura non sia certo esente da questo genere di condizionamenti lo mostra certamente la storia remota e recente di questo paese. Questo è però un discorso di carattere generale e niente autorizza a ritenere che in questi specifici provvedimenti di cui si parla e in altri simili il giudice e i giudici abbiano agito sotto l’influenza di tali condizionamenti, tantomeno lo si sta qui affermando. Il problema che vorrei invece sottolineare è un altro ed è di tipo culturale. Un altro giudice, autorevolissimo, un ex presidente emerito della Corte di Cassazione, Paolo Sceusa, in una recentissima intervista ha contestato tutta la narrativa dominante sulla efficacia e sulla sicurezza dei vaccini, ha sottolineato il loro indubbio carattere sperimentale e ha affermato il buon diritto del cittadino – anche sotto il profilo costituzionale – a sottrarsi a un trattamento sanitario del quale non sono note le reazioni avverse, anche potenzialmente gravi o gravissime, sul lungo periodo. Un punto di vista, quindi, non diverso, ma proprio opposto rispetto a quanto si afferma invece in premessa nelle sentenze del giudice del lavoro di Roma. Da dove discende questa contraddizione? Mi pare che discenda dalle diverse fonti utilizzate. Abbiamo visto quelle su cui si fondano le sentenze richiamate. Sceusa, dal canto suo, ha invece confessato di essere un attento lettore non solo e non tanto dei rapporti dell’Iss, ma di riviste scientifiche come Lancet, Nature e Science.
Dubito, però, che ci siano molti giudici dediti alle stesse letture e che soprattutto si sforzino di fondare le proprie deliberazioni – quando si tratta di valutare sicurezza ed efficacia dei vaccini – sugli studi pubblicati dalle più autorevoli riviste scientifiche internazionali. Pertanto, per chi si trova privato del lavoro e della retribuzione e non può fare altro che ricorrere in giudizio, il rischio è di trovarsi di fronte a un giudice che, diversamente da quanto farebbe eventualmente uno Sceusa, confermi la legittimità dell’obbligo vaccinale, utilizzando come fonti gli atti prodotti dallo stesso Governo che l’obbligo ha imposto o dall’istituzione scientifica che dal governo dipende, un giudice che non conosce o ritiene di non esser tenuto a conoscere, a citare ed utilizzare altre fonti, fossero pure le maggiori riviste scientifiche.
Alla base di un serio problema politico, c’è quasi sempre un problema culturale.
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