La questione che vorrei porre è la seguente: esiste una minoranza – certamente minoranza, ma piuttosto cospicua – che contesta il governo e l’uso politico della pandemia, che denuncia una deriva autoritaria in atto e che cerca di opporsi a questa politica e a questa deriva. Questa minoranza sta adottando strumenti efficaci di lotta, oppure no? A giudicare dai risultati raggiunti – o non raggiunti – finora, la risposta dovrebbe essere inequivocabilmente negativa. Il governo procede, step dopo step, decreto dopo decreto, categoria dopo categoria, discriminazione dopo discriminazione e realizza puntualmente ciò che sembrava solo annunciare. Realizza puntualmente ciò che solo pochi mesi prima veniva bollato come delirio complottista (pensate a come veniva deriso chi paventava il pericolo di introduzione di una identità digitale o di un passaporto digitale all’inizio di questa storia: ora c’è e lo chiamano Green Pass).
Vorrei incominciare questa analisi, ricordando quella fatta in un altro momento drammatico e in una situazione che per molti versi appare sempre più analoga alla nostra.

Dietrich Bonhoeffer – teologo, pastore luterano, oppositore del nazismo e infine martire della Resistenza – scriveva nel 1940:
«Che il male possa presentarsi sotto la forma della luce, dell’azione buona, della fedeltà, del rinnovamento, sotto la forma dello storicamente necessario e del socialmente giusto è, per chi sa riconoscere le cose con schiettezza, una chiara riconferma della sua malvagità abissale. Questo fatto rende invece cieco il teoretico dell’etica. Con i suoi concetti prefabbricati egli non è in grado di cogliere la realtà, per tacere della sua capacità di affrontare seriamente ciò di cui non conosce affatto l’essenza e la forza. Chi si è dedicato anima e corpo a un programma etico è condannato a sprecare in modo insensato le proprie energie, e neppure il suo martirio potrà essere fonte di vigore per la sua causa o una minaccia per il malvagio». Bonhoeffer elencava poi una serie di atteggiamenti etici che, pur in sé stessi nobilissimi, erano destinati allo scacco e al fallimento e scriveva:
«Chi mai potrebbe inveire contro questi fallimenti? Chi potrebbe ritenere di non esservi mai incorso qui e là […] E sono i migliori a perire così, con quanto possono e sono». Bonhoeffer notava quindi l’attualità del «personaggio immortale di Don Chisciotte, del ‘cavaliere dalla triste figura’, che scambia una bacinella da barbiere per un elmo e un misero ronzino per un destriero, che scende continuamente in lotta per la regina da lui eletta del suo cuore, che però non esiste affatto» e sottolineava che «simile appare l’avventurosa impresa di un vecchio mondo contro uno nuovo, di una realtà passata contro quella presente, di un nobile sognatore contro lo strapotere delle cose ordinarie» E tuttavia: «E’ troppo facile disprezzare le armi che abbiamo ereditate dai nostri padri, con cui essi compirono grandi cose, ma che non sono più sufficienti per la battaglia attuale. Soltanto l’uomo volgare può leggere le avventure di Don Chisciotte senza partecipazione e commozione».
Tributato questo appassionato omaggio al cavaliere dalla triste figura e sottolineata la sua attualità, restava e resta tuttavia il punto centrale: tale attualità era ed è del tutto negativa, in quanto rappresenta l’atteggiamento di chi si ostina ad opporsi al male che imperversa nel mondo con armi inservibili. Bisogna allora sostituire, conclude Bonhoeffer, queste «armi arrugginite» con altre «in perfetta efficienza». Questo sarà il suo programma di ricerca di una etica che lotti efficacemente contro il male, nella situazione presente e concreta, e non si limiti ad agitare vanamente le belle bandiere dei principi astratti.

Ora, venendo ai casi nostri, si potrebbe forse sostituire al “teoretico dell’etica” il “teoretico della politica”, o dell’etica politica, e più precisamente della opposizione politica o etico-politica, si potrebbe provare ad applicare queste profonde riflessioni di Bonhoeffer alla nostra situazione, a lasciarci interpellare e anche doverosamente “inquietare” da esse. Chiediamoci, allora, se le “armi” che stiamo usando nella nostra lotta, le armi che abbiamo ereditate dai nostri padri, con cui essi compirono grandi cose, non siano ormai insufficienti per la battaglia attuale, se nei tentativi di lotta, non si stiano usando purtroppo delle “armi arrugginite” e se chi le usa non sia un nobile “cavaliere dalla triste figura” che nulla può contro lo “strapotere delle cose ordinarie”.
Coloro che contestano il “governo della pandemia”, l’”uso politico della emergenza sanitaria” o la “dittatura sanitaria”, come spesso la si definisce, per lo più stanno adottando o semplicemente invocando due generi di “armi” di lotta: i tribunali e le piazze. La via giudiziaria, da un lato, che assume poi varie configurazioni, e quella politica che invece, non essendo imminenti le elezioni (siamo pure nel semestre bianco), data anche l’ampia e crescente sfiducia nei confronti di tutte le forze politiche parlamentari, nessuna esclusa, fallite o mai incominciate le iniziative di disobbedienza civile e boicottaggio, sembra invece risolversi in un’unica forma: la manifestazione di piazza.
Bisogna chiedersi quale sia l’effettiva efficacia di queste armi di lotta. Sgombriamo, però, il campo dagli equivoci che regolarmente insorgono quando appena si accenna ad avanzare un dubbio sul modo in cui oppositori e dissidenti stanno conducendo o semplicemente immaginando la loro resistenza. A parte il fatto che contestare una modalità di lotta, non significa rinunciare a questa lotta, ma cercare iniziative migliori, qui non si vuole affatto sostenere che le iniziative giudiziarie e le manifestazioni di piazza non servano a nulla e che non vadano fatte. Semmai, si tratterebbe di studiarle, selezionarle, organizzarle con attenzione e intelligenza, evitando quelle che sono in partenza condannate al fallimento – penso a certi “ricorsi collettivi” preventivi o addirittura ai ricorsi al tar contro un decreto legge – o che diventano addirittura controproducenti – penso a quelle manifestazioni maldestramente organizzate o condotte, che danno modo ai media di screditare e di delegittimare i “dissidenti”.
Fermo restando il buon diritto a resistere legalmente nei tribunali e a manifestare pubblicamente per esprimere il proprio dissenso, si tratta, però, di non farsi illusioni sulla possibilità di sconfiggere l’attuale “politica della pandemia”, che come dirò è una forma di biopolitica, semplicemente ricorrendo all’armamentario tradizionale dello Stato di diritto e della lotta democratica.
Temo che l’opposizione all’attuale “regime sanitario” sconti quindi un deficit di analisi, un ritardo culturale. Dall’analisi bisogna sempre partire per individuare gli strumenti di lotta efficaci. La prima domanda è allora questa: che tipo di regime ci troviamo di fronte? La migliore, sintetica definizione l’ha data, a mio avviso, Aldo Maria Valli: si tratta di un “dispotismo condiviso” (più precisamente di un dispotismo statalista condiviso).
È la migliore definizione perché il sostantivo evidenzia la crisi e lo svuotamento dello stato di diritto e della democrazia liberale e parlamentare, mentre l’aggettivo mostra come questo dispotismo non nasca da una eversione antidemocratica degli ordinamenti, ma da una degenerazione della stessa democrazia.
I poteri dominanti nel mondo, ha scritto dal canto suo Agamben, hanno colto il pretesto di una pandemia – vera, simulata o ingigantita è ora questione secondaria in questo nostro discorso – per trasformare radicalmente, attraverso lo strumento dello “stato di eccezione” (volgarmente: emergenza) il paradigma politico dominante, abbandonando definitivamente la democrazia borghese, liberale e parlamentare, costituzionale che peraltro era già in crisi. Lo stato di eccezione ha infatti comportato “la pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali”.
Sottoposta allo “stress test” della “emergenza sanitaria”, scrive ancora Valli, la democrazia liberale si è lasciata privare di diritti e libertà come fossero beni di poca importanza. E si chiede se quindi possiamo ancora considerarla qualcosa di sostanziale, che fa parte del nostro patrimonio ideale, o se essa si sia rivelata solo “un cosmetico” di cui è facile sbarazzarsi alla prima situazione percepita come di emergenza.
Ma se questo governo dispotico si è affermato così facilmente, non è stato solo per la debolezza degli ordinamenti liberali e costituzionali, ma perché i più “sono apparsi desiderosi di essere governati proprio in questo modo, lasciandosi trasformare in poco tempo da cittadini in sudditi”.
L’aspetto più drammatico nell’acquiescenza dei cittadini di fronte al dispotismo attuale sta nel fatto che manca la coscienza di essere privati della libertà e che anzi essa si accompagna alla illusione della libertà (tutti gli strumenti di controllo e di assoggettamento – il lock down, il “tracciamento”, i Green Pass, il vaccino imposto con obbligo dichiarato o surrettizio – vengono spacciati come mezzi per riacquistare o salvaguardare la libertà e tali sono reputati dai più). Suonano quindi profetiche le parole di Günther Anders: noi contemporanei siamo stati a tal punto privati della libertà – scriveva – che non è neanche più necessario darci ordini. Il nostro è autoasservimento nei confronti di un sistema che ci ha resi schiavi proprio con l’illusione della libertà. Quanto più è forte l’illusione della libertà, tanto più forte è il potere. Da qui un conformismo assoluto, che Anders definisce “congruismo”. Il congruismo è il conformismo nella sua accezione più radicale, ove manca persino il sospetto della perdita della libertà.

È quindi una singolare contraddizione che chi denuncia la deriva dispotica, chi parla apertamente di “dittatura sanitaria”, chi lamenta la sospensione delle fondamentali libertà costituzionali, non riesca ad immaginare altra via di resistenza che un’azione giudiziaria fondata sui principi e sugli strumenti dello Stato di diritto e della Costituzione stessa. Ed è altresì una contraddizione e una debolezza teorica e pratica che, una volta riconosciuto il consenso di cui purtroppo gode il regime, si pensi di abbatterlo con una sorta di “rivolta di popolo”.
Riguardo alla prima contraddizione, credo che questa ricerca di soluzioni o scorciatoie giudiziarie a un problema politico, a un enorme problema politico, questo affidarsi al giudice-giustiziere sconti la deriva culturale e la crisi della politica che si è aperta con la stagione di “Mani Pulite”: pare che si sia innescato una sorta di riflesso condizionato che porta ad attendersi la salvezza dai tribunali – amministrativi, ordinari, del lavoro, italiani, europei, internazionali – ogni volta che ci si trova a dover impegnare una battaglia politica, ogni volta che si cerca di aver ragione di un antagonista politico. E come abbiamo avuto un giustizialismo trasversale a destra e sinistra, così ora abbiamo un giustizialismo pro-vax e un giustizialismo no-vax.
L’altra strada, quella della piazza e, quando sarà possibile, delle urne, quando viene pensata come salvifica e risolutiva – perché in questo senso ne sto parlando, chiariamolo di nuovo, e non certo, ci mancherebbe altro, per screditare manifestazioni ed elezioni – sconta un altro tipo di ritardo culturale, sintomo dell’antico e radicato deficit di cultura liberale nel nostro paese: la sommaria e diffusissima identificazione di libertà e democrazia o, se si vuole, di libertà personale e sovranità popolare – cose in realtà ben diverse per origine e significato e solo eventualmente e provvisoriamente unite nei sistemi di democrazia liberale – impedisce di comprendere come un regime liberticida possa essere nello stesso tempo “democratico”, ossia sostenuto dal consenso della maggioranza. E porta, conseguenza pratica deleteria, a immaginare che gli strumenti della democrazia possano essere sufficienti ad abbatterlo, senza che prima si sia sgretolato il consenso di cui gode,
In definitiva, azioni giudiziarie e manifestazioni di piazza – se fatte oculatamente, perché altrimenti si risolvono in dei boomerang – sono azioni di disturbo che in futuro potranno anche contribuire alla crisi definitiva, quando saranno mutate altre e fondamentali circostanze, ma che attualmente non sono capaci da sole di innescare questa crisi.
Immagino l’immancabile replica: quali sono allora le alternative? “Tu che proponi”? Per trovarle queste alternative, occorre capire meglio in che tipo di regime ci troviamo e come ci siamo finiti. Come è precipitata la crisi della democrazia liberale, su che cosa si è fondato, su che cosa è stato costruito questo “dispotismo condiviso”? Su due pilastri fondamentali: la paura e la domanda di sicurezza. Entrambe riferite alla “salute”, meglio ancora alla vita, alla “nuda vita”, alla sopravvivenza meramente biologica.
Questo dispotismo si deve infatti definire anche “terapeutico”. Ciò che infatti lo ha reso possibile è stata l’assolutizzazione della Salute come valore – della salute come preteso “bene pubblico”, non come diritto dell’individuo – e la trasformazione della Scienza in fede religiosa. Si è instaurato, scrive Agamben, un “regime di terrore sanitario”, fondato su una sorta di “religione della salute”. Il politico è diventato medico, il medico ha assunto un ruolo politico, “i cittadini”, ha scritto Valli, sono stati trattati alla stregua di pazienti, la nazione è diventata un ospedale”. L’aspetto “terapeutico” ha rafforzato l’autoritarismo: “di fronte al medico, che ha in mano il nostro destino, non ci si mette a discutere, perché lui ha la competenza”. Se il paziente vuole salvarsi non gli resta che obbedire. “Il rapporto tra politico e cittadino, trasformato in un rapporto asimmetrico tra medico e paziente, ha favorito il sostanziale dispotismo”.
Il dispotismo terapeutico ha usato la Scienza, distorta, manipolata, ridotta quasi a superstizione, per tacitare ogni voce critica. La ha usata come grimaldello per sospendere le garanzie costituzionali. Scienza, Salute e Sicurezza sono diventate le tre persone di questa nuova indiscutibile trinità, con la loro casta sacerdotale di “esperti”.
Ora, un potere che si esercita, facendo leva sulla paura – paura della malattia che può minacciare e aggredire la “nuda vita”, non paura di essere privati di ciò che invece qualifica come umana quella stessa vita (perché a questo ci si è mostrati facilmente disposti a rinunciare) – un potere che si lega strettamente al sapere scientifico, opportunamente manipolato, un potere che stabilisce una netta linea di separazione fra la salute stessa, da un lato, e tutto ciò che può minacciarla – non solo la malattia e i malati veri e propri, non solo gli “infetti”, ma anche i supposti o potenziali malati e “infetti”, i supposti e potenziali veicolo di contagio (gli “asintomatici”)- un potere che isola, separa, discrimina quelli che definisce malati, per “immunizzare” (e rassicurare) quelli che definisce (ancora e per il momento) sani, un potere che aspira al controllo totale non solo dei comportamenti pubblici, ma anche di quelli privati – e che anzi abbatte il confine tra pubblico e privato – che aspira al controllo non solo dei pensieri e delle idee, ma dei corpi stessi, un potere siffatto è certamente un “biopotere” (totalitario). E il terreno da cui è nato è quello della biopolitica. Su questo stesso terreno, ahimè, occorre affrontarlo e provare a sconfiggerlo. Non direttamente, perché temo che un attacco frontale sia al momento impossibile, ma alimentandone, enfatizzandone le contraddizioni, assecondandone la tendenza all’implosione interna, contribuendo allo sgretolamento del consenso su cui si regge.
Di una cosa sono convinto: così come si è entrati in questo incubo, così se ne uscirà. La stragrande maggioranza dei cittadini si è sottomesso per paura: non si emanciperà perché convinto dai nostri ragionamenti, dalle nostre argomentazioni logiche, dalla scoperta – finalmente – dei dati e delle fonti scientifiche attendibili e tantomeno perché avrà improvvisamente riscoperto il valore della libertà e avrà capito quale perdita rappresenta il venir meno delle garanzie costituzionali e dello stato di diritto. La maggioranza silenziosa (ma non tanto) si affrancherà dal dispotismo sanitario, spinta dalla stessa paura che la ha portata ad apprezzarlo, perché si sentirà tradita nella sua domanda di sicurezza, perché il regime sarà venuto meno alla promessa con cui la ha ammaliata, ossia la difesa della “nuda vita”.
In ogni caso, per affrontare il Leviatano che nuota sull’Oceano della biopolitica, bisogna conoscere e affrontare questo mare e le sue tempeste. Le nostre vecchie imbarcazioni – lo strumentario della democrazia liberale e dello stato di diritto – sono troppo vulnerabili, sono lente, goffe e pesanti. Andavano bene per acque più tranquille, più sicure e già note. Dobbiamo ora navigare nell’Oceano ignoto della biopolitica, con navi più agili, sperando poi di poter rimettere in servizio quelle più vecchie o che almeno le nuove possano svolgere la stessa funzione che quelle altre hanno svolto per lungo tempo (fuor di metafora la difesa e la salvaguardia della libertà). Un Oceano, che in realtà, del tutto ignoto non è, in quanto è stato già solcato da qualche pioniere (Foucault, il più noto e importante). Prima di salpare e di decidere la rotta, sarà quindi il caso di assumere un po’ di notizie e di consigli da questi primi esploratori dell’Oceano.

Questo blog richiede un lavoro di studio e di ricerca. Se ne apprezzi i contenuti e l’impegno per la causa della libertà e vuoi offrire un contributo, puoi fare una piccola donazione
- con bonifico bancario sul conto IT 13 R 05387 15100 000000217060 intestato a Angelo Michele Imbriani (causale: DONAZIONE)
- o con carta di credito o paypal , dal link qui sotto oppure con il pulsante “Donazione” e selezionando l’importo dai pulsanti che appariranno (puoi lasciare anche un messaggio). Grazie!
https://www.paypal.com/donate?hosted_button_id=S8NRRANRKDMUN