Categorie
Uncategorized

«Dove devo andare ora io?» Il nostro “mondo di ieri”, il nostro dopoguerra. Quasi un racconto

Il paragone fra la lotta alla pandemia e la guerra è ormai un refrain ossessivo nella narrazione mediatica della vicenda e nelle stesse dichiarazioni di tecnici, esperti e politici – ultimo il nuovo capo della protezione civile. E del resto, abbiamo o no affidato la logistica a un generale? Una retorica che vorrebbe richiamare forse nella memoria collettiva la seconda guerra mondiale, la guerra di liberazione e, soprattutto, il clima di speranza, di fiducia, di rinascita del dopoguerra.

Ma disgraziatamente non tutti i dopoguerra sono simili e, anche se non c’è più nessun vivente a ricordarlo, chi ha un minimo di informazione storica, se non di cultura, dovrebbe sapere dell’altro dopoguerra, quello del 1919. E la retorica qui comincerebbe a vacillare e il paragone diventerebbe preoccupante. Non voglio riferirmi al fatto più scontato, che dopo la Grande Guerra, come suo fattore decisivo, vi fu la nascita del fascismo, che presto conquistò il potere, abbattendo lo Stato liberale. Voglio parlare invece di quell’altro dopoguerra nel racconto di due autori mitteleuropei, della finis Austriae, due ebrei del defunto Impero asburgico: Joseph Roth e Stephan Zweig. Nelle loro pagine si trovano, infatti, impressionanti e inquietanti assonanze con alcune questioni di stretta attualità.

Zweig parla di quel dopoguerra, dopo aver rievocato nostalgicamente “il mondo di ieri” (e questo è anche il titolo della sua opera). Viene da pensare, con tristezza, che anche noi dovremmo forse deciderci a raccontare il nostro “mondo di ieri”, per conservarne la memoria, per consegnarla alle future generazioni; prima che il nostro “mondo di ieri” sia definitivamente devastato dal “Great Reset”, innescato da un virus.

«Si viveva bene, si conduceva un’ esistenza comoda e spensierata in quella vecchia Vienna, e i nostri vicini settentrionali, i tedeschi, osservavano noi che abitavamo lungo il Danubio con un poco di irritazione e disprezzo, perché invece di mostrarci “attivi”, seri e rigorosi, ci godevamo serenamente la vita, mangiavamo bene, ci divertivamo tra feste e teatri e facevamo inoltre ottima musica. Invece dell’efficienza tedesca che avrebbe finito per avvelenare e turbare l’esistenza a tutti gli altri popoli, invece di quella smania di essere i migliori, di correre avanti a tutti, a Vienna si amava chiacchierare in tutta tranquillità, ci si compiaceva delle occasioni di incontro, lasciando che tutti potessero vivere al loro modo, senza invidie di sorta e con un’indulgenza benevola, forse un poco pigra. Vivi e lascia vivere, recitava il celebre motto viennese, una massima che ancora oggi mi appare molto più umana di qualsiasi imperativo categorico e che all’epoca si impose irresistibilmente in tutti gli ambienti della città […] la libertà d’azione dell’individuo, valore oggi appena concepibile, era ancora un dato assodato; la tolleranza non era, come lo è oggi, disprezzata e considerata indice di debolezza e insicurezza, ma rispettata e considerata una fondamentale energia morale».

Ma con l’esplosione del conflitto, pur accolta inizialmente dai più con un entusiastico fervore, un mutamento si verificò subito: «già nelle prime settimane di guerra del 1914 divenne a poco a poco impossibile scambiare una parola ragionevole con qualcuno».

Non mi dilungherò sulla potente ricostruzione del dopoguerra nelle pagine di Zweig, a cui rinvio, ma ne estrapolerò un solo elemento, che riecheggia, come ora vedremo, anche nell’opera dell’altro autore di cui ho scelto di parlare: i confini, le barriere improvvisamente levatesi in Europa, fra stato e stato, e l’odiosa, mortificante invenzione del “passaporto”. Ogni riferimento alle “tessere verdi” europee (e israeliane), ai “passaporti vaccinali”, è ovviamente puramente voluto.

«Non facevo che pensare a quello che un esiliato russo mi aveva detto molti anni addietro: “un tempo l’uomo non era che anima e corpo. Oggi, se vuole essere trattato da essere umano, gli serve anche un passaporto”.

E forse non c’è nulla che renda più esplicito l’incredibile passo indietro compiuto dal mondo nel periodo post bellico delle restrizioni imposte alla libertà di spostamento degli individui e più in generale ai loro diritti. Prima del 1914 la terra era di tutti gli uomini, ognuno andava dove credeva e vi restava per tutto il tempo che desiderava. Non esistevano visti o autorizzazioni. Io osservo sempre divertito lo stupore con cui i giovani reagiscono al racconto dei miei viaggi in India e America prima del 1914, non solo senza passaporto, ma senza averne neppure mai visto uno! Si prendeva il treno e si scendeva senza chiedere nulla e senza che nessuno chiedesse nulla. Dei mille moduli e dichiarazioni oggi necessari non ne esisteva all’epoca nemmeno uno. Niente documenti, visti o seccature. Quelle stesse frontiere che oggi, a causa della patologica diffidenza di tutti nei riguardi di tutti, doganieri polizia e gendarmi hanno trasformato in un percorso a ostacoli, non erano altro che linee simboliche, che si oltrepassavano con la noncuranza con la quale oggi si valica il meridiano di Greenwich»

Joseph Roth, dal canto suo, ne La cripta dei Cappuccini, racconta i dialoghi di diversi personaggi dopo la guerra, Uno di questi, Chojnicki, ha un fratello pazzo, ricoverata nel manicomio di Steinhof. Nel dialogo in questione, egli ascolta i discorsi di un venditore di caldarroste:

«”In vita mia non ho mai veduto niente di simile. Ogni anno ho sempre potuto vendere dappertutto; in Boemia, in Moravia, in Slesia, in Galizia”.

Ed enumerò tutti i vecchi, perduti, paesi della corona.

E ora tutto è proibito. E dire che ho un passaporto. Con la fotografia”.

Tirò fuori dalla tasca della giacca il suo passaporto e tenendolo alto lo mostrò in giro.

Questo è solo un caldarrostaio”, disse Chojnicki, “ma vedete è addirittura un mestiere simbolico. Simbolico per la vecchia monarchia. Questo signore ha venduto le sue castagne ovunque, in metà dell’ Europa, si può dire. Dappertutto, ovunque si mangiassero le sue caldarroste, era Austria, Governava Francesco Giuseppe. Oggi niente più caldarroste senza visto. Che razza di mondo! Io me ne infischio della vostra pensione. Io vado a Steinhof da mio fratello”».

Ossia: meglio parlare con un matto, che stare in questo mondo di matti.

Zweig, tornando a lui, descrive con queste poche parole, il rifiuto, il senso di oppressione e la ripugnanza che gli suscitava il “Great Reset” di allora:

«Nel nostro animo di esseri nati liberi provavamo costantemente la sensazione di essere oggetti e non soggetti, di non avere alcun diritto, ma di dipendere completamente dalla clemenza delle autorità. Non facevano che interrogarci, registrarci, numerarci, perquisirci, bollarci e per me, imperdonabile sopravvissuto di un’epoca più libera e cittadino di una sognata Repubblica mondiale, ogni timbro sul passaporto rappresenta ancora oggi un marchio infamante».

I due scrittori conobbero una fine tragicamente simile. Fecero purtroppo in tempo ad assistere alla conseguenza più perversa di quel dopoguerra: l’ascesa del nazismo, l’uno a Parigi, l’altro a Londra. Roth morì alcolizzato nel 1939, subito dopo aver scritto La leggenda del santo bevitore. Zweig fece in tempo a raccontare nella sua opera della seconda catastrofe bellica del Novecento e ad assistere alla conquista da parte del nazismo di quasi tutto il continente, eccetto quell’Inghilterra in cui si era rifugiato da apolide. Si suicidò nel 1942.

 La Cripta dei Cappuccini si chiude nel 1938 con l’irrompere nel solito caffè frequentato dal protagonista, Francesco Ferdinando Trotta, uomo emblematico della vecchia monarchia asburgica, di una figura grottesca in divisa: è un nazista che annuncia la formazione del nuovo “governo popolare”. Il caffè è costretto a chiudere e Trotta vagando per le strade deserte, arriva quasi inconsciamente alla Cripta dei Cappuccini, dove con gli altri Asburgo è sepolto anche il vecchio Imperatore.

Sto pensando che anche io nelle molte volte in cui sono stato a Vienna, non ho mancato mai di visitare le tombe reali e di soffermarmi, con rispetto, emozione e quasi devozione, di fronte al sepolcro di Francesco Giuseppe e anche della imperatrice Elisabetta, la tormentata Sissi, la più ribelle, la più “anarchica” tra le regnanti, uccisa paradossalmente proprio da un anarchico sul lago di Ginevra. Non sono stato ovviamente suddito di Kaiser Franz Josef, né lo sono stati i miei avi, ma ho sempre sentito una appartenenza ideale, culturale, a quella vecchia monarchia. E pertanto non ho mai mancato di fare il mio pellegrinaggio alla Cripta dei Cappuccini.

Trotta, seguito solo da un vecchio cane, cammina per le strade deserte, tra “croci totalmente estranee” – le svastiche – da solo, con un cane sconosciuto:

«La Cripta dei Cappuccini, dove giacciono i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi di pietra, era chiusa. Il frate cappuccino mi venne incontro e chiese:

Che cosa desidera”?

Voglio visitare il sarcofago del mio imperatore, Francesco Giuseppe”, risposi.

“Dio la benedica!”, disse il frate e fece sopra di me il segno della croce.

Dio conservi”! gridai.  

”Zitto”, disse il frate.

Dove devo andare, ora, io, un Trotta?…»

Sto pensando che sono quasi dieci anni che manco da Vienna, dalla Cripta dei Cappuccini, e non so quando potrò tornarvi. Forse mai più. A causa dei nuovi “passaporti”, ancora più opprimenti e offensivi di quelli che già tanto molestavano Zweig o il caldarrostaio di Roth.

So che altri, non pochi, hanno i miei stessi pensieri. Ognuno di noi è un Trotta, epigono di un mondo che forse è già scomparso.

Ognuno di noi si trova a vagare per strade deserte, chiedendosi: «Dove devo andare, ora, io, un Trotta?…»

Speriamo di trovare almeno un frate misericordioso e un vecchio cane.