Vi è una vicenda, poco nota e che pochissimi ricordano o vogliono ricordare, che pure è veramente emblematica nel disegnare i rapporti tra politica, giustizia e intellettuali in questo paese.
Nel 1979, durante i lavori della Commissione Moro di cui è un componente, Leonardo Sciascia incontra per la prima volta di persona Giulio Andreotti, che la Commissione ascolta in qualità di Presidente del Consiglio. Gli chiede se ha avuto notizia del coinvolgimento di servizi stranieri nel sequestro del leader democristiano, come all’epoca si era vociferato. Andreotti nega e allora Sciascia ribatte che una voce del genere l’aveva raccolta dallo stesso segretario del PCI, Enrico Berlinguer, il quale gli aveva espresso i suoi timori per possibili collegamenti con la Cecoslovacchia.
Berlinguer, però, non solo nega, ma querela Sciascia per diffamazione. Sciascia reagisce querelando a sua volta per calunnia il segretario del PCI e chiamando a testimone l’artista e amico Renato Guttuso, anche lui presente al colloquio.
Ma qui, prima di riferire gli sviluppi e l’esito della vicenda, è necessario chiarire i rapporti tra i suoi protagonisti: Sciascia, Guttuso, il PCI.
Sciascia è entrato in rotta di collisione con il PCI già con la pubblicazione, nel novembre del 1971 de Il Contesto. Di questo romanzo e della intera parabola dei rapporti fra lo scrittore di Racalmuto e il PCI ho parlato più diffusamente in un precedente articolo di questo blog. Qui basterà ricordare che dopo i furibondi e infamanti attacchi ricevuti (innanzitutto da Napoleone Colajanni sulle pagine dell’”Unità”) per il suo “apologo sul potere” che colpiva duramente, nel racconto, il “Partito Rivoluzionario Internazionale” (fuor di metafora il PCI), accusato di sacrificare la verità, la stessa rivoluzione (o una vera opposizione) alla ragion di partito (“Non potevamo rischiare che scoppiasse una rivoluzione”, dice il vicesegretario del partito nella finzione narrativa di Sciascia), ci era poi stato un riavvicinamento tra il 1974 e il 1975. Un successivo romanzo di Sciascia – Todo Modo – interpretato in chiave antidemocristiana, era stato apprezzato (e anche un po’ strumentalizzato) dal PCI e dai suoi “intellettuali organici”. Sciascia, dal canto suo, si era compiaciuto della posizione assunta dal partito riguardo al referendum sul divorzio, e aveva sperato che potesse preludere a un mutamento di rotta, a una sconfessione della linea del compromesso storico, a un coerente impegno per la laicità (così non sarà). E in occasione delle amministrative del 1975, gli era così arrivata la proposta di una candidatura per il Consiglio Comunale di Palermo – allora dominato dalla DC di Lima e Ciancimino – dal giovane segretario regionale del PCI, Achille Occhetto. Sciascia aveva accettato, ma ben presto si era dimesso da consigliere, non condividendo, appunto, l’avvicinamento del PCI alla DC. Il sequestro Moro aveva segnato infine la rottura definitiva. Lo scrittore era stato veementemente attaccato per una sua dichiarazione sullo Stato e sulle BR, semplificata e deformata dalla intellettualità comunista. Aveva risposto, nel suo stile, rilanciando. E ne era venuto fuori l’Affaire Moro, un implacabile atto di accusa e smascheramento della “linea della fermezza”, su cui si era attestato rigidamente il PCI di Berlinguer, e del tentativo strumentale di accreditare l’immagine di un Moro non più lucido, durante la prigionia e nelle sue lettere (i cui messaggi cifrati non si era voluto correttamente interpretare), e addirittura manipolato dalle BR.
L’anno dopo, Sciascia aveva accettato la proposta di candidatura dei Radicali di Pannella e così era finito a Montecitorio e nella Commissione Moro, inviso, come si può immaginare, sia al PCI che alla DC, tanto a Berlinguer quanto ad Andreotti.
Guttuso si era mostrato invece il tipico esemplare dell’intellettuale “organico”. Quando i rapporti dell’amico di lunga data con il partito si erano guastati, Guttuso si era allontanato da lui, giudicando incompatibile l’amicizia con quella diversità di vedute politiche: «Caro Leonardo», gli scrive dalle colonne di Repubblica, «il senso di sgomento che ho provato nell’apprendere la notizia della tua candidatura nel Pr mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te».
La replica di Sciascia è sferzante e rivela una differenza si potrebbe dire antropologica: «Tu vuoi salvarmi l’anima, e io non voglio salvare la tua». E affonda implacabile il coltello nella piaga della verità e della finzione, della autenticità e della ipocrisia, come è solito fare: «La tua preoccupazione e il tuo sgomento non vengono dallo scoprirmi in contraddizione: sono un modo, e del tuo vivere il comunismo, e del tuo intendere l’amicizia». E ancora: «Al contrario, il tuo essere comunista negli anni del realismo socialista, durante la polemica Vittorini-Togliatti, di fronte ai fatti di Ungheria e di Cecoslovacchia, in questi anni di compromesso storico, non mi hanno mai fatto riflettere sull’amicizia che sentivo per te […] Un mio concittadino usava chiudere le discussioni con questa frase: “siamo d’accordo, ma la pensiamo diversamente”. Anche noi, caro Renato, siamo d’accordo su tante cose, ma la pensiamo diversamente. Contentiamoci di essere d’accordo su qualche punto. E continuiamo, finché si può, a pensarla diversamente».
Questo invito alla riconciliazione all’insegna della laicità e della tolleranza non venne però raccolto da Guttuso. Per quest’ultimo, evidentemente, il problema non era il disaccordo fra lui e Sciascia, ma quello fra Sciascia e il partito. Ed era questo dissidio che rendeva “imperdonabile” l’amico di tanti anni.
D’altra parte, entrambi, per motivi diversi – la delusione politica in un caso, la delusione personale nell’altro – erano destinati a rovesciare quel rapporto nel suo opposto, in quanto entrambi siciliani: «Attenzione alla parola amicizia», scrive Felice Cavallaro, giornalista, amico e compaesano di Sciascia, nella sua bella biografia dello scrittore (Sciascia, l’eretico. Storia e profezia di un siciliano scomodo), dalla quale ho tratto anche altri spunti per questo articolo, «un sentimento che può portare un siciliano ad afflati di infinita ed eccessiva generosità, ma che può ribaltarsi nell’esatto opposto, anche per un equivoco o una incomprensione, determinando risentimenti non rimarginabili».
Guttuso, in quella stessa legislatura, è parlamentare del PCI. E Sciascia lo chiama dunque in causa, in quella controversia con Berlinguer, pensando, un po’ ingenuamente, che la fedeltà alla verità – non quella ad una amicizia ormai consumata – debba prevalere su tutto, anche sulla fedeltà al partito. Ma questo era vero per lui, intellettuale eretico, non per Guttuso, intellettuale organico. E Guttuso, inopinatamente, smentisce l’amico di un tempo, sostiene Berlinguer e nega di aver mai ascoltato le frasi sulla Cecoslovacchia.
Non ci fa una bella figura, ai nostri occhi, il pittore, ma non ci fa una bella figura neanche Berlinguer, non tanto per la smentita – dovuta alle ragioni della strategia politica (la stagione della “solidarietà nazionale” è finita, ma un mutamento di linea ancora non c’è e Andreotti resta per il PCI un interlocutore imprescindibile) e della fedeltà al Patto di Varsavia (nonostante il parziale, se non timido sganciamento) – ma per il gesto alquanto miserevole della denuncia nei confronti di un parlamentare che sta solo cercando la verità e che, peraltro, non nutriva alcuna intenzione diffamatoria.
Una pessima figura ci fa anche – e veniamo all’ultimo attore della commedia – la magistratura. I giudici ascoltano Berlinguer e Guttuso, ma non Sciascia, e finiscono per archiviare sia la denuncia per diffamazione del segretario del PCI, che quella per calunnia dello scrittore. In quest’ultimo caso, tuttavia, le motivazioni finiscono per bollare comunque come falso il racconto di Sciascia. Lo scrittore non può non risentirsene. Anche per il tripudio della stampa non amica e vicina al PCI. Cita e parafrasa, con amarezza, John Donne – a sua volta citato da Hemingway: «Quando in un paese la campana della giustizia suona a morto, non mandare mai a chiedere per chi suona, suona per tutti».
Da tutta la vicenda vien fuori bene – e tuttavia solitario, troppo solitario – soltanto lo stesso Sciascia, testimoniando ancora una volta il ruolo dell’intellettuale, il quale secondo le parole che aveva scritto un paio di anni prima, è «uno che esercita nella società civile la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa, principalmente e insopportabilmente, dall’amore alla verità, gli consentono di svolgere».
Dove tutto il peso della frase, come nota anche Cavallaro, è su quegli avverbi: «principalmente e insopportabilmente».