
«Come è avvenuto più volte nel corso della storia, i filosofi dovranno nuovamente entrare in conflitto con la religione, che non è più il cristianesimo, ma la scienza o quella parte di essa che ha assunto la forma di una religione. Non so se torneranno ad accendersi i roghi e dei libri verranno messi all’indice, ma certo il pensiero di coloro che continuano a cercare la verità e rifiutano la menzogna dominante sarà, come già sta accadendo sotto i nostri occhi, escluso e accusato di diffondere notizie (notizie, non idee, poiché la notizia è più importante della realtà!) false. Come in tutti i momenti di emergenza, vera o simulata, si vedranno nuovamente gli ignoranti calunniare i filosofi e le canaglie cercare di trarre profitto dalle sciagure che esse stesse hanno provocato. Tutto questo è già avvenuto e continuerà a avvenire, ma coloro che testimoniano per la verità non cesseranno di farlo, perché nessuno può testimoniare per il testimone».
Sono le frasi con le quali si concludeva un articolo di Giorgio Agamben dello scorso mese di maggio. Frasi che non si possono che, dolentemente, sottoscrivere e che diventano, in modo oltremodo impegnativo, un programma di analisi e di intervento nel dibattito pubblico. Si tratta di smascherare e denunciare quella scienza, o quella parte di essa, che si è fatta religione – e religione della peggiore specie, religione dell’intolleranza, del fanatismo, della guerra santa e dell’inquisizione, difendendosi da essa e difendendo la libertà di pensiero. Si tratta – mi permetto di declinare e forse modificare in tal modo il programma di Agamben – di rilanciare quella parte di scienza che è rimasta scienza, che non ha rinunciato alla sua originaria e autentica vocazione, che non ha abdicato al rigore e, insieme, alla prudenza e alla umiltà delle sue procedure, che non si è trasformata in una sorta di superstizione religiosa; si tratta di rimettere in piedi la scienza come scienza e di tirarla giù dal piedistallo su cui si ergono gli idoli.
Che «la scienza sia diventata la religione del nostro tempo, ciò in cui gli uomini credono di credere, è ormai da tempo evidente», scrive Agamben. E questo era già molto preoccupante. Questa preoccupazione si è però trasformata in allarme, quando su questa “religione della scienza”, divenuta essenzialmente “religione della salute”, si è instaurato un “regime di terrore sanitario” (Agamben), un “dispotismo sanitario”, per giunta “condiviso” (Valli).
«Non sorprende che protagonista di questa nuova guerra di religione», scrive ancora Agamben, «sia quella parte della scienza dove la dommatica è meno rigorosa e più forte l’aspetto pragmatico: la medicina, il cui oggetto immediato è il corpo vivente degli esseri umani».
Ma vediamo quali sono, secondo il filosofo romano, i caratteri essenziali di questa «fede vittoriosa».
La medicina come religione trae i suoi presupposti dalla biologia (e non a caso primattori indiscussi sono oggi i virologi, medici che stanno a cavallo delle due discipline). La medicina che oggi va per la maggiore, tuttavia, articola i concetti della biologia «in senso gnostico-manicheo, cioè secondo una esasperata opposizione dualistica». Vi è un principio metafisico del Male, i cui agenti specifici sono i batteri e i virus, e un principio metafisico del Bene, che non è la salute, non è la salute correttamente intesa come uno stato di benessere non solo fisico, ma psicologico, sociale e spirituale (era questa la definizione della stessa Oms, se non sbaglio), ma è la salute come mera guarigione dalla malattia. E vi è una liturgia, che consiste nella terapia, rigidamente fissata dai protocolli, e che ha i suoi sacerdoti nei medici, anzi negli “esperti”.
Questa mutazione, come si diceva, della medicina in religione gnostica, è in atto da tempo. Il fenomeno nuovo o l’ulteriore passaggio che si è manifestato con questa “pandemia”, è però la deriva totalitaria e intollerante di questa “fede religiosa”.
«Se questa pratica cultuale era finora, come ogni liturgia, episodica e limitata nel tempo, il fenomeno inaspettato a cui stiamo assistendo è che essa è diventata permanente e onnipervasiva. Non si tratta più di assumere delle medicine o di sottoporsi quando è necessario a una visita medica o a un intervento chirurgico: la vita intera degli esseri umani deve diventare in ogni istante il luogo di una ininterrotta celebrazione cultuale. Il nemico, il virus, è sempre presente e deve essere combattuto incessantemente e senza possibile tregua».
La conseguenza logica è che «la pratica cultuale non è più libera e volontaria, esposta solo a sanzioni di ordine spirituale, ma deve essere resa normativamente obbligatoria». E qui si registra una nuova collusione fra religione e potere profano: quest’ultimo «deve vegliare a che la liturgia della religione medica, che coincide ormai con l’intera vita, sia puntualmente osservata nei fatti».
Si potrebbe obiettare che certi provvedimenti e certe pratiche sono legati al fatto straordinario della pandemia e hanno come unico scopo la tutela della salute. Non è così e, per dirla ancora con le parole di Agamben, «che si tratti qui di una pratica cultuale e non di un’esigenza scientifica razionale è immediatamente evidente». Che la tutela della salute, anche riduttivamente intesa come assenza di malattia, sia lo scopo è smentito da semplici constatazioni: «la causa di mortalità di gran lunga più frequente nel nostro paese sono le malattie cardio-vascolari ed è noto che queste potrebbero diminuire se si praticasse una forma di vita più sana e se ci si attenesse a una alimentazione particolare. Ma a nessun medico era mai venuto in mente che questa forma di vita e di alimentazione, che essi consigliavano ai pazienti, diventasse oggetto di una normativa giuridica, che decretasse ex lege che cosa si deve mangiare e come si deve vivere, trasformando l’intera esistenza in un obbligo sanitario. Proprio questo è stato fatto e, almeno per ora, la gente ha accettato come se fosse ovvio di rinunciare alla propria libertà di movimento, al lavoro, alle amicizie, agli amori, alle relazioni sociali, alle proprie convinzioni religiose e politiche».
Agamben sostiene inoltre che «le altre due religioni dell’Occidente, la religione di Cristo e la religione del denaro, abbiano ceduto il primato, apparentemente senza combattere, alla medicina e alla scienza». Se per abdicazione della “religione di Cristo” a quella sanitaria si intende riferirsi agli atteggiamenti assunti dalla Chiesa in questa “pandemia”, non si può che concordare con Agamben e soprattutto con Aldo Maria Valli, che nel suo Virus e Leviatano ha descritto e stigmatizzato in modo perfetto la posizione della istituzione chiesa e della maggior parte del clero.
Riguardo, invece, al capitalismo, ho delle perplessità e qualche obiezione. Innanzitutto, non direi che il capitalismo sia mai stato una religione – non lo può essere per la sua intrinseca e pragmatica natura.
In secondo luogo, riguardo alle “perdite di produttività” che, come scrive Agamben, il capitalismo “non aveva mai osato mettere in conto” e che ora “pur con qualche protesta, ha accettato”, “probabilmente sperando di trovare più tardi un accordo con la nuova religione, che su questo punto sembra disposta a transigere”, di quali perdite e di quale capitalismo stiamo parlando? I cosiddetti “giganti del web” con il lock down non hanno conosciuto perdite, ma, al contrario, notevolissimi aumenti di profitto. Il capitalismo non è oggi – e non è mai stato – un monolite, un blocco compatto e indifferenziato di interessi. In ogni fase critica della sua storia – pensiamo alla Seconda rivoluzione industriale o alla Crisi del ’29 – vi sono stati un “capitalismo vincente” e un “capitalismo perdente”. Il capitalismo vive periodici, se non continui, processi di ristrutturazione e finanche di rivoluzione. Pare oggi che la pandemia, quale che ne sia l’origine, sia funzionale a una “quarta rivoluzione industriale” o magari alla fase estrema della terza, della rivoluzione informatica, consentendo di accelerare processi radicali di ristrutturazione della produzione, dello scambio, dei mercati e della organizzazione del lavoro, in quello che sembra il taylorismo del nuovo millennio.
In questa trasformazione si fa ancora più pervasivo il ruolo dello Stato e più stretta la compenetrazione fra potere politico e potere economico.
Ma torniamo alla scienza, o meglio alla pseudo-scienza, che è oggi l’ideologia intorno a cui si raduna e si assembla questo blocco di potere politico-economico-finanziario.
È necessario procedere allo “smascheramento” di questa ideologia, restaurando la scienza come scienza. La scienza non può essere ideologia. Ecco un primo contributo di analisi.

Principi fondamentali della scienza moderna sono quelli di pubblicità, di riproducibilità e di provvisorietà del sapere scientifico. Una scoperta scientifica non è tale se i suoi risultati sperimentali, con le procedure adottate per ottenerli, non vengono pubblicati, in una determinata veste formale. Deve essere infatti garantita alla comunità scientifica, non solo l’informazione sulla scoperta, ma anche e soprattutto la possibilità di riprodurla e quindi di verificarla e discuterla. Solo in questo modo, tra l’altro, è possibile il progresso delle conoscenze scientifiche. Da questi principi deriva poi quello della provvisorietà di tali conoscenze, che si accettano per valide solo fino a che non sono eventualmente falsificate e devono quindi avere il requisito della falsificabilità (altrimenti non possono ritenersi conoscenze scientifiche), come ha argomentato in modo esemplare Karl Popper. Lo spirito della scienza è quindi genuinamente laico e la scienza non può avere nulla a che vedere con una fede religiosa o con una dogmatica.
Nel campo della medicina, e in particolar modo della farmacologia, le cose oggi non sembra che seguano, tuttavia, questi principi-capisaldi della scienza. Sono sconcertanti, ad esempio, i dati resi noti da Transparimed, un gruppo di ricerca inglese che, come indica il nome, si batte per una adeguata trasparenza nel mondo medico-scientifico: il 70% dei centri di ricerca italiani sui farmaci non pubblica o non pubblica correttamente i risultati. In particolare, la documentazione divulgata, risulta incompleta nella metà dei casi, o in una percentuale di poco inferiore al 50%, sul totale delle sperimentazioni condotte dal Policlinico Gemelli di Roma, dal San Raffaele di Milano, dal Gaslini di Genova, dal Pascale di Napoli, dal Sacco di Milano, dallo Spallanzani di Roma e da un lungo elenco di altri istituti. Eccezione positiva è il Mario Negri che ha pubblicato correttamente i risultati di 45 ricerche su 47 (dati completi su “La Verità” dello scorso 18 gennaio).
Proprio il Presidente del “Mario Negri”, Silvio Garattini, intervistato da “La Verità”, ci aiuta a comprendere i motivi di tutto questo. E le sue franche affermazioni non fanno che confermare l’esigenza pressante di rimettere la scienza sulle sue gambe.
L’intervistatore gli chiede innanzitutto per quali motivi, a suo avviso, si preferisce non pubblicare i risultati negativi delle ricerche (perché sono questi che vengono omessi). Ecco la risposta, che non ha bisogno di commenti:
«Per una motivazione culturale: tutto è indirizzato a evidenziare solo i benefici. Chi dimostra i benefici di una sperimentazione è ben accolto. C’è poco interesse a dimostrare gli effetti negativi, o addirittura tossici, di un farmaco. Quando si verificano, c’è una sorta di fastidio ad ammetterli. Uno studio negativo viene erroneamente considerato di scarsa importanza. E invece, non è affatto così; può essere rilevante, perché mette in discussione l’impiego del farmaco»
Ma, se non si hanno a disposizione tutti i dati, a cominciare proprio da quelli negativi, continua Garattini, «è difficile stabilire l’evidenza scientifica che giustifica la prescrizione di un farmaco».
Emerge poi che il registro ufficiale europeo dei trial clinici venga spesso trascurato e anche su questo Garattini manifesta una opinione assai preoccupante:
«Credo che in alcuni casi a prevalere siano gli interessi industriali. Non dimentichiamoci che quella del farmaco rappresenta una entità economica importante: in Italia, il mercato vale almeno 30 miliardi di euro».
Certo, aggiunge Garattini, si tratta pur sempre di un mercato “regolamentato” che però «spesso tende a privilegiare gli interessi industriali e non quelli dei pazienti”.
Ma non è tutto. A prescindere anche dalla carenza di documentazione, i medici, dice Garattini, non consultano neanche gli studi clinici pubblicati e controllati, quando devono prescrivere un farmaco, perché non hanno tempo sufficiente. «E chi lo fa per loro»? chiede il giornalista. «Gli informatori farmaceutici», risponde seccamente Garattini. Che ovviamente curano gli interessi della loro azienda e che hanno un obiettivo ovvio: aumentare le prescrizioni del farmaco che promuovono. Occorrerebbe, allora, una informazione indipendente, che però, non c’è: «l’unica sorgente arriva dalle aziende farmaceutiche». Una informazione che passasse attraverso canali differenziati e una maggiore trasparenza sarebbero invece di notevole aiuto per gli stessi medici, «che sarebbero molto più critici su quello che fanno». Non è il caso, peraltro, di deprecare i comportamenti dell’industria farmaceutica che fa il suo mestiere, mentre chi non lo fa è il servizio sanitario nazionale, obietta ancora Garattini.
In queste condizioni – e quello sopra riportato è solo un esempio tra i molti, seppure estremamente significativo e grave– ai filosofi tocca certamente tornare a una critica serrata alla religione, o meglio alla scienza come nuova religione, tocca certamente richiamare a una più seria coscienza epistemologica e metodologica gli scienziati e, in particolare, i medici.
Ai comuni cittadini, che certamente non possono sostituirsi ai medici e neanche farsi un bagaglio di conoscenze specialistiche, toccherebbe invece usare una maggiore vigilanza critica e non accogliere fideisticamente qualunque indicazione venga dagli “esperti” – medici e non – non prestarsi ciecamente al ruolo di vittime sacrificali in una liturgia religiosa, che peraltro talora sconfina finanche nel rituale superstizioso.
Non credo di esagerare. Il Tar della Campania, per esempio, sulla scia di analoghe decisioni presi da altri tribunali amministrativi, ha imposto la riapertura “in presenza” delle scuole elementari e delle scuole medie, contestando l’impianto delle ordinanze di De Luca: non ci sono, infatti, evidenze scientifiche che la chiusura delle scuole contenga la diffusione del virus ed anzi i contagi sono aumentati nel periodo della DaD. Risulta così leso il diritto allo studio.
Benissimo, ma ora si dovrebbe procedere analogamente per tutti i provvedimenti di lock down: dove sono le evidenze scientifiche che la chiusura di bar, ristoranti, cinema, teatri, stadi, palestre abbia contenuto la diffusione del virus? Dove sono le evidenze scientifiche che l’imposizione delle mascherine, anche all’aperto, abbia contenuto la diffusione del virus? Dove sono le evidenze scientifiche che l’assurdo provvedimento del coprifuoco abbia contenuto la diffusione del virus? Dove sono le evidenze scientifiche che il divieto della mobilità anche fra i comuni, nelle zone rosse, e, dappertutto, fra le regioni abbia contenuto la diffusione del virus? Quanti diritti, oltre a quello allo studio, sono stati lesi?
Si può accettare passivamente che vengano così gravemente colpiti diritti e libertà e venga devastato il tessuto produttivo del paese, in nome di precauzioni – le mascherine anche all’aperto e dove non ci sono “assembramenti”, il coprifuoco, la chiusura di locali che avevano adottato tutti i prescritti protocolli di sicurezza, ecc. – che assomigliano appunto più a rituali di scongiuro e di rassicurazione che a misure cautelari razionalmente e scientificamente fondate?