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VIRUS E LEVIATANO

Virus e Leviatano di Aldo Maria Valli è, con gli scritti di Giorgio Agamben, la più lucida analisi e denuncia della deriva autoritaria in atto, dell’uso della emergenza sanitaria per instaurare quello che Valli definisce il “dispotismo statalista terapeutico”.

Da notare, in premessa, che Valli scrive le sue note tra la primavera e l’estate, dopo l’esperienza del primo lock down e senza ancora conoscere la realtà di questa seconda reclusione.

Valli parte dalla constatazione di uno stato d’animo che certamente tanti di noi hanno provato e continuano a provare in questi mesi: la sorpresa. Sorprendente è non solo “la disinvoltura con cui il governo ha sospeso alcune libertà costituzionalmente garantite”, ma l’atteggiamento pienamente disponibile e collaborativo dell’opinione pubblica.

Un terribile precedente

Sorprendente è che la facilità con cui ciò è potuto accadere non sia considerata neanche degna di una riflessione. Nella guerra civile che si è scatenata sui social, fra i molti sostenitori della politica dell’emergenza e i pochi suoi critici, un elemento è completamente assente dalla discussione, dalla polemica o dalla rissa, un motivo sul quale nessuno si interroga: ciò che è accaduto, comunque lo si voglia valutare, costituisce un precedente di una certa importanza.

Ciò che bisognerebbe chiedersi, e che dovrebbero chiedersi anche coloro che giustificano certi provvedimenti in nome dell’”emergenza sanitaria” e della necessità di tutelare innanzitutto la salute, è cioè questo: se una svolta autoritaria è avvenuta così facilmente e in così breve tempo e senza opposizioni di sorta, cosa impedisce che possa avvenire di nuovo, utilizzando un altro allarme per la salute pubblica? Chi ci garantisce che l’esperimento non possa essere ripetuto in modo ancora più ampio e più duraturo? E che qualcuno possa trasformare l’emergenza in normalità, che lo stato di emergenza venga istituzionalizzato? E se il passaggio è tanto agevole – anche a voler dare per scontato che l’origine della attuale situazione è puramente naturale e accidentale – chi ci garantisce che qualcuno in futuro non possa creare di proposito un analogo e magari peggiore pericolo, per sospendere libertà e diritti costituzionali?

Eppure, proprio la domanda cruciale – la democrazia liberale ha le risorse per scongiurare questo pericolo autoritario? – non viene posta, quasi non si ritenesse meritevole neanche di una riflessione il rischio che la situazione attuale costituisca un precedente e quasi si debba accettare senza alcun problema l’idea che in certe condizioni una democrazia liberale possa legittimamente sospendere le libertà costituzionali.

Il dispotismo condiviso, statalista, terapeutico

Sul carattere autoritario della attuale fase politica Valli non ha dubbi. La situazione attuale si può considerare un “dispotismo condiviso”, espressione che non è affatto un ossimoro come sa chi ha un minimo di conoscenze storiche. Infatti, i cittadini “sono apparsi desiderosi di essere governati proprio in questo modo, lasciandosi trasformare in poco tempo da cittadini in sudditi”.

L’aspetto più drammatico nell’acquiescenza dei cittadini di fronte al dispotismo attuale sta nel fatto che manca la coscienza di essere privati della libertà e che anzi esso si accompagna alla illusione della libertà. Suonano quindi profetiche le parole di Günther Anders: noi contemporanei siamo stati a tal punto privati della libertà – scriveva – che non è neanche più necessario darci ordini. Il nostro è autoasservimento nei confronti di un sistema che ci ha resi schiavi proprio con l’illusione della libertà. Quanto più è forte l’illusione della libertà, tanto più forte è il potere. Da qui un conformismo assoluto, che Anders definisce “congruismo”. Il congruismo è il conformismo nella sua accezione più radicale, ove manca persino il sospetto della perdita della libertà.

Questo dispotismo è un dispotismo statalista (e non poteva essere altrimenti).

Nel momento del pericolo e dell’emergenza è venuto, infatti, spontaneo guardare allo Stato, affidarsi allo Stato. “Lo statalismo, dunque, si è dimostrato un carattere profondamente interiorizzato, non solo dalla classe politica, ma anche dal corpo sociale, perché non ha avuto nemmeno bisogno di essere evocato, è scattato come risposta immediata e spontanea senza che si sollevassero obiezioni o preoccupazioni circa il rispetto delle libertà fondamentali e la preminenza del cittadino sull’apparato statale”.

Questo dispotismo statalista è inoltre anche “terapeutico”. Ciò che infatti lo ha reso possibile è stata l’assolutizzazione della Salute come valore e la trasformazione della Scienza in fede religiosa. Il politico è diventato medico, il medico ha assunto un ruolo politico, “i cittadini sono stati trattati alla stregua di pazienti, la nazione è diventata un ospedale”. L’aspetto “terapeutico” ha rafforzato l’autoritarismo: “di fronte al medico, che ha in mano il nostro destino, non ci si mette a discutere, perché lui ha la competenza”. Se il paziente vuole salvarsi non gli resta che obbedire. “Il rapporto tra politico e cittadino, trasformato in un rapporto asimmetrico tra medico e paziente, ha favorito il sostanziale dispotismo”.

Il dispotismo terapeutico ha usato la Scienza, distorta e ridotta a superstizione perché fondata su dati opachi, per tacitare ogni voce critica. La ha usata come grimaldello per sospendere le garanzie costituzionali. Scienza, Salute e Sicurezza sono diventate le tre persone di questa nuova indiscutibile trinità. La Scienza divenuta dogma ha avuto la sua casta sacerdotale: gli esperti del comitato tecnico scientifico. Una casta che non si è potuta discutere, domandando, ad esempio, come questi esperti fossero stati selezionati, quali processi decisionali avessero adottati e se ci fossero altre voci in dissenso (e quando queste voci riuscivano a trovare spazio sui media venivano immediatamente screditate). Gli stessi verbali sono stati secretati. Questa casta ci ha “ipnotizzati con una numerologia di stampo divinatorio”.

La religione della trinità Scienza-Salute-Sicurezza si è infine presentata come religione penitenziale e sacrificale: se non ti assoggetti acriticamente alle verità e alle regole imposti dalla casta sacerdotale sei nel peccato, sei uno scomunicato. E la furia moralizzatrice si è scagliata contro le varie categorie di peccatori, dai runner in avanti. La rinuncia a vivere è diventata atto di purificazione, la sofferenza strumento di purificazione.

Tutto ciò è stato evidentemente possibile per un notevole deficit culturale. “La mancanza di cultura scientifica si è sommata alla mancanza di cultura religiosa. Abbiamo assistito al trionfo grottesco di simulacri della scienza e della religione”.

L’ignoranza ha alimentato la paura, la paura fa accettare il sacrificio della libertà e alimenta l’odio verso il diverso, verso la minoranza (già, un anno fa questo era il motivo dominante della polemica politica di quegli stessi che oggi sono i più accaniti sostenitori del dispotismo sanitario), ancor più per la dimensione sacrificale e penitenziale di questa nuova religione: “se noi siamo qui a soffrire in casa, perché lui se ne va a correre, va al bar, ai Navigli, in vacanza?”. Chi pensa di vivere un processo di purificazione diventa intollerante verso chi si sottrae a questo processo. Atteggiamenti che un tempo riguardavano la vita della chiesa sono stati assunti da chi, pur facendo professione di laicità e addirittura di laicismo, mostra i caratteri del peggiore bigottismo e moralismo.

Il ruolo dei media, degli intellettuali, della Chiesa

Decisivo è il ruolo dei media, a supporto del dispotismo sanitario. Essi costruiscono una narrazione ufficiale, emarginando chi ne propone altre o rivendica semplicemente il diritto al libero confronto fra narrazioni diverse. E sono i media stessi a decidere quali notizie siano fake-news e non i cittadini, come invece dovrebbe accadere in una democrazia liberale. Ha scritto Renaud Girard, editorialista del Figaro: i sociologi dovranno analizzare attentamente il ruolo svolto dai media nel far sorgere una psicosi mondiale di fronte a una malattia poco letale”.

I media ci hanno inoltre mostrato il ceto degli intellettuali, ridotti a “pubblicisti culturali”, che approvano incondizionatamente l’omologazione, da veri corifei del congruismo. Siamo ben oltre l’”intellettuale organico” di Gramsci, secondo Valli. Oggi l’intellettuale non è organico a una classe e a un partito, ma a un interesse e il suo obiettivo non è l’egemonia culturale (“che presuppone una cultura”), ma l’omologazione al discorso collettivo. Ciò che gli sta a cuore è “l’immunità di gregge, o di branco, dal rischio di pensare in modo libero”.

Accanto ai media e agli intellettuali “pubblicisti culturali”, la Chiesa stessa ha contribuito alla narrazione dominante, funzionale al dispotismo. Si è dimostrate più realista del re. Neanche per un istante ha pensato di appellarsi alla libertas Ecclesiae. Al contrario i pastori, con pochissime eccezioni “sono apparsi talmente ligi alle norme introdotte con la decretazione d’urgenza da sembrare desiderosi di far parte di una chiesa di stato, disposta a disfarsi della propria autonomia e a mettersi nelle mani del potere civile”. Vescovi, pastori e sacerdoti si sono schierati con lo Stato e non con i fedeli “che hanno visto infranto il diritto di culto e calpestata la libertà religiosa”.

La Chiesa “ha parlato di salute e non di salvezza. Si è preoccupata del corpo e non dell’anima. Ed è diventata una sorta di Chiesa di Stato”. Non ha neanche provato a proporre soluzioni alternative alla chiusura dei luoghi di culto, come un maggior numero di messe con un minor numero di fedeli o le messe all’aperto con distanziamento. E quando è venuto il momento di riaprire, la liturgia è stata stravolta dalle procedure di igienizzazione. “La chiesa, che una volta indicava la via verso la santificazione, seppe solo parlare di sanificazione”. Soprattutto, la chiesa “è rimasta afona sul mistero della sofferenza e della morte. Non ha fornito chiavi di lettura, ma si è solo preoccupata di applicare procedure di presunta sanificazione”.

Eppure, chi se non la chiesa avrebbe potuto mettere in guardia dalla idolatria della scienza e della salute? Chi avrebbe potuto pronunciare parole di conforto contro la paura? E invece “con l’ossessione grottesca per l’igienizzazione, i pastori alimentarono a loro volta il clima di terrore. La sofferenza per questa chiesa non ha nulla da insegnarci e l’idea di resurrezione non ha niente da dirci”. “Del tutto assente, nella predicazione della chiesa durante la pandemia, è stata la questione del peccato originale e del male che è nel mondo. La chiesa ecologista, ammaliata dal mito della Natura buona, non ha saputo neppure balbettare un’argomentazione in tal senso”.

Il destino della democrazia liberale e della libertà stessa

L’emergenza ha così aperto la strada a un dispotismo che, peraltro, rivela paradossalmente la debolezza di tutti i soggetti che lo hanno reso possibile: debolezza della politica, dello Stato stesso, dei corpi intermedi, dei cittadini e dell’opinione pubblica, della chiesa. Debolezza, soprattutto, dell’uomo contemporaneo, homo timorosus.

Debolezza – e qui è a mio avviso l’aspetto più interessante e purtroppo più inquietante della riflessione di Valli – della democrazia liberale. Sottoposta allo “stress test” della “emergenza sanitaria” la democrazia liberale, parlamentare e costituzionale si è lasciata privare di diritti e libertà come fossero beni di poca importanza. Ciò dovrebbe spingere a interrogarsi su questa forma politica caratteristica della storia e della cultura occidentale: è qualcosa di sostanziale, che fa parte del nostro patrimonio ideale o è solo “un cosmetico” di cui è facile sbarazzarsi alla prima situazione percepita come di emergenza?

 La domanda fondamentale resta però quella sul perché la libertà sia stata così facilmente svenduta in cambio di un simulacro di sicurezza. Perché ci si è adeguati così facilmente al dispotismo statalista, perché ci si è conformati acriticamente, senza riflettere, delegando ogni scelta alla tecnoscienza, perché il vero “distanziamento” è stato quello dalla logica e dal buon senso. Evidentemente, se ciò è accaduto è perché non è più così familiare l’idea di libertà e forse è angosciosamente vero che la pandemia ha sepolto quel poco di cultura liberale che esisteva in Italia.

Speriamo, per usare un’immagine biblica che a Valli è certamente nota, che questa idea e questa cultura della libertà siano quantomeno affidate a un “resto”, che questo resto possa custodirle nella  “cattività babilonese”, nella generale caduta nell’idolatria e nella volenterosa soggezione al Leviatano, in modo che un giorno possano di nuovo fiorire. Di più non è dato fare e sperare e sarebbe già molto poter coltivare questa speranza.