Ai lettori del mio ultimo libro – L’isola della libertà. Un viaggio in Inghilterra – voglio oggi raccontare come esso è nato e come e perché è in parte mutato il suo significato originario.

Il viaggio descritto si svolse realmente nel non vicino 2011 (anzi si trattò, nella realtà, di due diversi viaggi in Inghilterra, il primo a Londra, in inverno, e il secondo, estivo, negli altri luoghi citati). Ogni descrizione – di città, monumenti, pub, persone, scenari naturali, pietanze, birre, ecc. – è tratta esclusivamente dai miei ricordi ed appunti. Non c’è nulla di inventato, non ho avuto bisogno di inventare nulla, anche se, come è ovvio, in ogni cosa e persona si trasfondono lo sguardo e la mente del narratore.
Anche quella volta, come sempre mi accade, il rientro in patria, benché comunque allietato da affetti familiari, amici, gatti, fu venato di malinconia. Eravamo in prossimità di ferragosto e la ripresa del lavoro a scuola era ancora lontana. E così mi venne in mente di “prolungare” in qualche modo il bel viaggio che avevo fatto, scrivendone una sorta di diario “postumo”. Ma, nel momento stesso in cui cominciai ad accarezzare l’idea, mi resi conto che quella volta non c’era solo la solita lieve tristezza per la vacanza finita, ma qualcosa d’altro, di più importante e che forse meritava di essere espresso. Vi era la contrapposizione tra due paesi, tra due civiltà quasi, tra un’Italia che mi pareva sempre più deludente e amara e una Gran Bretagna, certamente e inevitabilmente un po’ idealizzata nello sguardo di chi vi si era recato per puro diletto, ma che, confermando del resto ciò che già sapevo dalle mie letture e dai miei studi, mi appariva come un ben diverso modello di organizzazione civile. Pensai così di intitolare quelle note di viaggio, piuttosto banalmente, “Viaggio in Inghilterra di un anti-italiano”, ma subito mi resi conto che stavo cadendo, del tutto consapevolmente, del resto, ed anzi deliberatamente, in un vecchio topos letterario, quello che spinge ad apprezzare, elogiare, idealizzare le altre civiltà, per denunciare i mali della propria. E così con sincera autoironia pensai di trattare gli inglesi attuali, come i Germani di Tacito, gli indios di Bartolomè de Las Casas, i persiani di Montesquieu. E il titolo adeguato, mi parve quindi che dovesse essere – detto sempre con profonda autoironia e anzi quasi con autocommiserazione – “Britannia”.
A quel punto incominciò a prendere forma un libro e non un semplice quaderno di appunti di viaggio. Non pensai minimamente di pubblicarlo. Negli anni precedenti, avevo ben pubblicato un paio di libri e numerosi articoli e saggi di storia contemporanea o geopolitica, scritti specialistici nel campo dei miei interessi e delle mie competenze professionali, ma quanto alla narrativa mi ero sempre limitato a tentativi iniziati con entusiasmo e regolarmente arenati e abbandonati entro un tempo più o meno breve. Il più ampio e duraturo di questi esperimenti letterari era stato un romanzo storico, ambientato nel Cinquecento, nel mondo degli “eretici” e della Inquisizione. La storia, inevitabilmente, irrompeva anche in questo nuovo scritto, seguito al viaggio in Inghilterra, e prevedibilmente si prendeva subito la ribalta. Molti dei luoghi che avevo scelto di visitare evocavano, infatti, vicende e personaggi della storia inglese – medioevale, moderna, contemporanea – e spesso li avevo scelti proprio per questo, uscendo dalle vie più battute dal turismo.
Ma si trattava pur sempre di narrativa, sebbene di un genere del tutto particolare (già, quale era il genere? ecco una domanda che ancora mi accompagna e che non ha trovato una risposta certa!). Reso edotto dalle precedenti esperienze, pensai di farlo circolare – insieme a qualche racconto più breve che intanto ero riuscito inaspettatamente a completare e che non avevo gettato via insoddisfatto! – in una ristrettissima cerchia di amici. Finché anche “Britannia”, puntualmente, fu abbandonato.
Occorrevano forse sollecitazioni ancora più forti dalla realtà e, probabilmente, anche una maturazione personale ed esistenziale, una più completa ricchezza, serietà, gravità di esperienze di vita e, nello stesso tempo, quella misura di distacco e di disincanto necessario a “sublimarle” letterariamente.
E le sollecitazioni arrivarono, sia sul piano privato che su quello pubblico, del quale solo qui interessa parlare: il terrorismo islamista prese a fare stragi nel cuore dell’Europa. Era chiaro, per me, che non si trattava di azioni criminali di qualche “disturbato mentale”, ma di un progetto di attacco alla civiltà occidentale, ai suoi valori, al suo modo di vivere. Ma l’Occidente, o almeno i suoi rappresentanti e le sue voci ufficiali, non coglievano affatto la portata della minaccia: da un lato la minimizzavano e si rifiutavano persino di chiamarla con il suo vero nome, tacciando di “islamofobia”, se non di xenofobia e razzismo, chi invece accostava agli atti terroristici la parola impronunciabile; dall’altro lato, l’Occidente si autoaccusava, ritenendo incredibilmente se stesso moralmente responsabile dell’integralismo islamico, in quella che è stata opportunamente definita “autofobia” o “oicofobia”.
E così, incominciai a pensare che bisognasse recuperare la coscienza di quei valori che l’Occidente moderno aveva incarnato e l’amore per essi: non si può apprezzare e non si può difendere, infatti, ciò che non si conosce più e che non si ama.
Intanto, studiavo per un dottorato di ricerca la figura di Dietrich Bonhoeffer, grande teologo del Novecento e martire della resistenza al nazismo. Avvertii il bisogno di raccontare la sua vicenda umana, così moralmente significativa, a un pubblico più vasto e comunque diverso dai lettori di un saggio scientifico come quello a cui stavo lavorando. Soprattutto perché un nuovo mostro totalitario, sotto altre vesti, incombeva di nuovo sull’Europa e sulla sua civiltà. Anche in quel caso, detti alla narrazione la forma e la veste amena di un racconto di viaggio, un viaggio, anzi due, in Germania – in Alta Baviera e a Berlino – sulle tracce di Bonhoeffer. In un paio di settimane scrissi il testo, stimolato anche dal fatto che avevo saputo di un concorso letterario, indetto da un piccolo editore di qualità della mia città. Ripresi anche “Britannia”, alla luce della nuova chiave di lettura della situazione attuale che si stava imponendo alla mia mente. E mandai entrambi i racconti al “Terebinto”, partecipando al concorso. In questo modo, la decisione di pubblicarli, che ero stato sempre riluttante a prendere, l’avrei affidata a un “agente esterno”. E i racconti piacquero. Quello su Bonhoeffer venne subito pubblicato e divenne “Il Nido dell’Aquila” (ne parlo in altro articolo di questo blog).
“Britannia” si mutava invece ne “L’Isola della Libertà” e il filo conduttore diventava la dolente meditazione sul “tramonto dell’Occidente”, che aveva inaspettatamente preso la forma dell’”autofobia”:
Parlavamo di quel tramonto in metafora che da più di un secolo era stato profetizzato e che forse adesso incombeva davvero. Il tramonto dell’Occidente, il tramonto della nostra civiltà, che eravamo i primi a trovare criticabile e di fatto avevamo a lungo e accanitamente contestato, ma alla quale ci eravamo infine accorti di dovere tutto, tutto quel che eravamo e che avevamo e perfino gli strumenti critici e la libertà che ci consentivano di metterla in discussione. Ce n’eravamo accorti ora che il tramonto si avvicinava di quanto ci fosse stato caro e bello e prezioso quel giorno che si stava spegnendo. E avremmo voluto prolungarlo con tutta la nostra anima. Non ci rassegnavamo al fatto che l’Occidente dovesse finire così, imbelle, infiacchito, annegato nella stupidità e nella finzione, incapace perfino di un sussulto di orgoglio, masochista, autolesionista. Tutto preso a vigilare su parole ormai destituite di ogni rapporto con le cose, in una versione grottesca e stolta del vecchio nominalismo degli Scolastici. Accusandosi di ogni misfatto, di ogni male della storia, reale o immaginario, e cieco di fronte a ogni suo merito e contributo di civiltà, in una smania perversa di autoflagellazione. Incapace di riconoscere ciò che aveva donato al mondo intero il suo dominio, pur duro e spesso ingiusto e talora spietato, come non può non essere un dominio; e soprattutto incapace di accorgersi di ciò che quella signoria occidentale aveva risparmiato al mondo, del male ben più letale che sarebbe accaduto se a comandare fossero stati altri. Il male che forse si stava preparando, che era in agguato nella tenebra che sarebbe seguita al tramonto. (da L’isola della libertà)
Ma, mi ero chiesto, era stato opportuno scegliere proprio l’Inghilterra come meta di quel viaggio-meditazione, di quel viaggio-ricerca? Certamente sì, mi ero risposto senza molte esitazioni. Il problema che individuavo era infatti essenzialmente quello delle classi dirigenti capaci – o incapaci – di affrontare la sfida mortale che incombeva sull’Occidente. Classi dirigenti che tristemente mancavano. E l’Inghilterra era stata storicamente– e forse ahimè non lo era più – un modello di “selezione naturali” di uomini capaci di guidarla e salvarla nei frangenti più terribili e di fronte alle più micidiali minacce. Pensavo alla grande Elisabetta, nel Cinquecento. E pensavo a lui, a sir Winston. Che salvando la sua patria, aveva salvato il mondo.
Occorrerebbe di nuovo un Churchill per l’Occidente, occorrerebbe ritrovare una classe dirigente, che abbia la lucidità e il coraggio di individuare l’amico e il nemico reali e non quelli immaginari (amico e nemico che sono poi categorie imprescindibili della politica, anche e soprattutto della politica liberale e della politica democratica). Che abbia la consapevolezza dei veri interessi dell’Occidente e, in esso, di quelli del proprio paese e la fermezza necessaria a difenderli. Che abbia ancora l’amore per tutto ciò che l’Occidente ha costruito nella sua storia e la volontà irriducibile di salvaguardarlo, perché è l’humus su cui è fiorita la vita materiale e spirituale di ciascuno di noi, anche dei più acerrimi contestatori dell’Occidente stesso, perché è il nostro patrimonio materiale e spirituale. Che sappia apprezzare questo patrimonio e che sappia anche criticarlo e metterlo in discussione – perché anche questo, soprattutto questo, è valore occidentale – ma senza scadere nella santificazione di tutto ciò che è altro, diverso ed esotico e nell’unica paura che sembra diventata lecita: l’autofobia. Avremmo bisogno di una classe dirigente degna. (da L’isola della libertà)
Un anno e mezzo dopo la pubblicazione de Il Nido dell’Aquila, che aveva incontrato l’incoraggiante favore dei lettori, venne il momento di pubblicare anche L’isola della libertà. A gennaio del 2020, incominciai a rivedere le bozze. Il libro sarebbe dovuto uscire in aprile…
Ma ad aprile stava intanto accadendo l’inimmaginabile. Ad aprile eravamo precipitati in un incubo fanta-horror, nella più sinistra distopia. Per dirla, con Giorgio Agamben, uno dei pochissimi intellettuali ad aver avuto il coraggio della verità ed il coraggio di testimoniarla e denunciarla pubblicamente, si stava realizzando il paradigma di potere più efficace di tutta la storia dell’Occidente. Mettendo in questione una minaccia alla salute, ma in realtà in nome di una “sicurezza sanitaria” del tutto astratta e largamente fittizia, gli uomini si mostravano pronti ad accettare limitazioni della loro libertà che mai erano stati disposti a tollerare, neanche durante le due guerre mondiali e sotto le dittature totalitarie. I cittadini sembravano disposti a sacrificare praticamente tutto: non solo le fondamentali libertà personali, ma le condizioni normali di vita, le relazioni sociali, il lavoro, le convinzioni religiose e politiche, perfino l’amicizia, gli affetti, l’amore. Ciò che più sconcertava era che il sacrificio della libertà e di tutto ciò che caratterizza una vita degna, umana e normale, oltre che la sospensione di almeno nove articoli della Costituzione, con i relativi diritti, veniva spacciato e accettato come massimo esempio di civismo, di responsabilità e di altruismo. Con l’acquiescenza delle chiese, era stato finanche abolito il “prossimo”, ridotto a una possibile fonte di contagio, ad un potenziale ammalato da non visitare.
Eravamo stati messi brutalmente di fronte alla questione della libertà. E la cosa ci aveva colti di sorpresa. Cominciavo così a rimaneggiare il mio libro – visto che di farlo uscire in pieno lock down non se ne parlava proprio – ne correggevo o arricchivo il tema centrale, il filo conduttore. Non si trattava di un generico tramonto dell’Occidente, di una vaga minaccia ai suoi valori, ma di un pericolo mortale per il bene più prezioso a cui era legata la nostra civiltà: il bene della libertà. Ed era un pericolo che giungeva del tutto inaspettato:
la nostra generazione, a differenza di quelle che l’hanno preceduta, è cresciuta e si è formata nell’idea che la libertà dovesse accompagnarci per sempre, che fosse inseparabile da noi, dal nostro mondo, come l’ombra non può staccarsi dal nostro corpo quando camminiamo in una giornata di sole. Abbiamo vissuto così sicuri del possesso stabile di questo bene, così convinti che esso fosse una conquista definitiva, che non abbiamo saputo convenientemente apprezzarlo, non abbiamo capito che occorreva salvaguardarlo e difenderlo da minacce meno palesi di quelle passate, ma proprio per questo non meno insidiose. Queste minacce ci inquietano ora, perché ci rendiamo conto che la libertà ci è così familiare che non la conosciamo. E come potremmo poi difendere ciò che non comprendiamo? Certo, conosciamo benissimo la libertà nella sua veste quotidiana di fredda idea astratta, morto feticcio, slogan banale, stanca declamazione retorica. Ma conosciamo davvero la libertà come si è concretamente, lentamente, faticosamente realizzata nella storia, quella vera, quella che va salvata? Le sue origini, le sue fondamenta, quelle che dovremmo recuperare e rinsaldare se vogliamo conservare questo dono prezioso, non sono forse divenute per noi un mistero? (da “L’isola della libertà”)
La drammatica attualità ci interpellava, co metteva all’angolo con una domanda alla quale nessuno poteva evitare in qualche modo di rispondere? Quale valore davamo alla libertà? Era davvero questo il patrimonio dell’Occidente che dovevano salvaguardare, era questo il valore supremo a cui dovevamo ancora credere e per il quale valeva ancora la pena di lottare, di vivere e di morire? O questo bene non era forse, come sembravano pensare i più, la salute, ma una salute concepita come mera assenza di malattia – anzi come difesa da un’unica malattia, trascurando tutte le altre, molte delle quali più pericolose!? O non era forse la vita stessa, ma una vita ridotta, come aveva ben scritto ancora una volta Agamben – voce nel deserto – ridotta a “nuda vita”, una entità puramente biologica, spogliata di ogni componente affettiva e culturale, ossia di tutto ciò che rende l’esistenza umana?
Si accendevano, sui social e nei talk show, accese discussioni su che cosa fosse libertà e su che rapporto ci dovesse essere tra libertà e salute. Discussioni quasi sempre di livello miserabile, senza argomentazione e cognizione, ma con scambio di asserzioni lanciate a guisa di insulto contro l’interlocutore: “non hai la libertà di infettare gli altri”! “La tua è solo la libertà di morire”! “Vai a farti un giro per le terapie intensive”!
Ora, anche a voler prescindere da un simile, e non certo nuovo, imbarbarimento del dibattito pubblico, anche a voler comprendere che ognuno può legittimamente avere la propria idea di libertà, mi pareva incontrovertibile che in una comunità ci dovesse essere una idea condivisa di libertà e che questa idea poi fosse articolata nel patto di convivenza civile di quella comunità, che è la Costituzione. Ma proprio la Costituzione, nei suoi principi di libertà, veniva violentata, o così a me sembrava, e questo – almeno tra la gente comune – non tanto intenzionalmente e deliberatamente, ma per ignoranza e superficialità. Tornavo al punto fondamentale: non si poteva apprezzare, amare e difendere ciò che non si conosceva più.
A questo punto il tema del mio libro si specificava meglio: tra gli svaghi, i divertimenti e i piaceri di una vacanza, era un viaggio-ricerca sulle origini e sul faticoso cammino della libertà, sulle condizioni che la favoriscono e quelle che invece la ostacolano o la soffocano. Ma era sempre l’Inghilterra la meta più adatta? Ma certamente! Sapevo bene, lo avevo appreso innanzitutto da von Hayek, che nell’Occidente moderno si erano delineate due diverse, per certi versi finanche opposte – tradizioni di libertà, due idee, due modelli: quello “britannico” e quello “francese”. Tanti, anche fra le persone colte, questo sembravano non saperlo o piuttosto aderivano acriticamente a uno di questi modelli, quello “francese”, liquidando sbrigativamente l’altro, ritenendo che esso fosse stato superato da quest’ultimo (i termini spesso usati, di “libertà negativa”, per la tradizione britannica, e di “libertà positiva” per quello francese sono eloquenti). Non mi dilungherò ora sulla questione (magari riservandola ad un altro articolo e rimandando comunque il lettore a quello già presente in questo blog e che riguarda proprio von Hayek), ma per me era chiaro che la tradizione da recuperare, da salvaguardare e da rilanciare era proprio quella britannica, quella delle libertà individuali e personali, che non possono essere violate in nome dei “diritti sociali e collettivi” e di un’idea dogmatica di democrazia (la “democrazia assoluta” di Burke, l’”iperdemocrazia” di Ortega y Gasset, la “democrazia totalitaria” di Talmon). Proprio la distopia generata dal coronavirus me lo confermava: in nome di un presunto diritto collettivo alla salute, in nome della “sicurezza sanitaria” venivano calpestate tutte le libertà fondamentali, ignorando pericolosamente la saggia massima secondo cui quando si rinuncia alla libertà si perdono anche la sicurezza e la salute.
Dunque l’Inghilterra. Perché qui la libertà non era un modello astratto, quasi metafisico, elaborato, calato dall’alto, imposto da una ristretta cerchia di menti illuminate che si sentivano in diritto di guidare, correggere, rimproverare le masse inconsapevoli. Non era la libertà “giacobina”, che si credeva sorretta dalla “virtù” dei pochi e veniva spacciata per “bene comune”, e che tante volte era tragicamente degenerata. No, quella britannica era libertà empirica, pratica, radicata in una storia e in una tradizione “non esposta all’insolenza dell’ultimo arrivato”, come aveva scritto fin dal 1790 Edmund Burke nelle sue considerazioni critiche sulla rivoluzione francese. E nel nostro povero paese, invece, proprio questo mi pareva che accadesse: la libertà veniva violata dall’insolenza dell’ultimo arrivato.
Cercai allora di ricucire in una trama coerente le varie tappe di quel viaggio, che ormai risaliva a qualche anno addietro, di rintracciare, quasi fosse stato un percorso iniziatico, fra un pub e un castello in rovina, fra un inatteso ristorante gourmet e un antico college, nei diversi siti che evocavano i diversi fantasmi della storia – terribili o grotteschi, tragici o comici, mediocri o eroici che fossero – le condizioni, i presupposti che avevano reso possibile la libertà, l’humus che aveva fertilizzato il terreno adatto al suo fiorire. Fino ai luoghi simbolicamente legati alle grandi, epocali e quasi apocalittiche battaglie combattute, nel 1588 o nel 1940, intorno a questa isola, in sua difesa e in difesa della libertà di tutto il mondo a venire. Fino alle cruciali domande sul senso e sulla direzione della storia, dinanzi alla solitudine dell’Oceano.
Quando venne finalmente il momento di pubblicare il libro, lo scorso settembre, in un purtroppo momentaneo attenuarsi del dispotismo sanitario, le contingenze del presente rilanciavano ed enfatizzavano le mie domande, sembravano dare un più solido significato a quel viaggio-ricerca. Era come se una mano invisibile mi avesse spinto a farlo, anni prima, e a rievocarlo e raccontarlo, quando sarebbe poi giunto il tempo giusto, il kairòs. Una mano o una mente nascosta che mi avevano suggerito anche il titolo, dietro il quale pareva ormai che si celasse una metafora: l’isola della libertà non era più l’Inghilterra, non era solo l’Inghilterra, ma era dispersa nell’Occidente intero e nel mondo, come in una drammatica diaspora. Ed era ancora una volta assediata dai nemici della libertà, come nel 1588, come nel 1940. Da un Avversario che sembrava potentissimo. Ma ci conforta ricordare la sorte di quella che fu incautamente chiamata la Invencible armada. E ci dona la forza, il coraggio, l’intelligenza, per perseverare nella battaglia.