La considerazione più centrata e profonda sul “governo della emergenza sanitaria”, che qualcuno non esita a definire “dittatura sanitaria”, l’ha fatta, a mio avviso, Giorgio Agamben, quando ha affermato che siamo di fronte a un vero mutamento di paradigma sociale e politico. Ossia, che attraverso lo stato di emergenza sanitaria – non mi interessa ora discutere origine e reale dimensione della pandemia – i poteri dominanti stiano attuando un mutamento epocale della organizzazione sociale e politica. Che Agamben abbia colto nel segno lo mostra il fatto che da mesi non trova più spazio su nessun giornale e ospitalità in nessun media.
Gli articoli che Agamben ha poi raccolto, dopo averli potuti pubblicare soltanto sul proprio sito, forniscono una importante ipotesi e traccia di lavoro, che va evidentemente sviluppata.
Provo a fare alcune considerazioni, suggerite dai provvedimenti assunti dal Governo con l’ultimo Dpcm, quello del 25 ottobre. Questo decreto appare il compimento, l’esaltazione di una linea di gestione della “emergenza” che si era già chiaramente delineata: viene mortificata, proibita, censurata, come “non essenziale” e “non necessaria” ogni attività legata allo “svago”, al “divertimento” all’”evasione”, alla “ricreazione”, al “tempo libero”: viaggi, vacanze, aperitivi, cene e pranzi a ristorante e in casa, feste e ricevimenti, sport, palestre, piscine, ma anche arte, musica, cinema, teatro. Certamente, vengono colpiti economia e lavoro, ma concentrandosi, non casualmente, sui settori legati alle suddette “attività non essenziali”. La “religione della sicurezza sanitaria” si rivela così una religione neo-penitenziale, una tragica caricatura di quelle tendenze gnostiche e dualistiche che attraversano da secoli la civiltà occidentale.
È pericolosamente superficiale pensare che tutto ciò sia legato all’”emergenza” sanitaria e che sia quindi transitorio. Innanzitutto, perché una emergenza che dura un anno – salvo ulteriori proroghe – trasforma di per sé lo stato di eccezione in stato normativo e istituisce in ogni caso un pericoloso precedente. In secondo luogo, perché se è vero che esiste indubbiamente il virus, non vi è alcun dato scientifico e statistico che giustifichi una emergenza legata a tale virus. In terzo luogo, perché anche se l’emergenza vi fosse, sfuggirebbe la ratio di certi provvedimenti, resterebbe difficile capire perché il contagio debba accanirsi in certe ore – quelle appunto del tempo libero – perché i ristoranti siano pericolosi a cena e non a pranzo, perché siano potenziali focolai le palestre o le piscine e non i mezzi pubblici che portano la gente al lavoro o a scuola.
La ratio di questo e degli altri provvedimenti è quindi legata al mutamento di paradigma di cui scrive Agamben e non certo alla preoccupazione per la diffusione del contagio. Come si può provare a definire più precisamente questo passaggio? La mente corre subito al momento storico in cui nasce la stessa nozione di “tempo libero”: si tratta dell’America degli anni Venti del Novecento, dell’epoca del “fordismo”. Il fordismo non è solo una nuova tecnica di produzione, lo scientific management di Taylor, ma è un sistema di organizzazione della produzione e delle relazioni lavorative, che si traduce in un nuovo modello di società. Questo modello, che poi troverà in Keynes e in Roosevelt i loro “campioni” e che dopo la seconda guerra mondiale si diffonderà in tutto il mondo occidentale, si fonda sulla crescita della domanda, quindi dei consumi, quindi dei redditi dei ceti medi e delle classi lavoratrici. L’”invenzione del tempo libero”, dell’industria dello svago e del divertimento è perciò un aspetto essenziale del fordismo. La manipolazione dei bisogni e della stessa vita privata dei cittadini ne è certamente un corollario ed avviene in modo indiretto nei paesi democratici, attraverso quella che Adorno chiama l’”industria culturale”, in modo diretto nei regimi totalitari, che come è noto tendono a inquadrare e mobilitare le masse anche al di fuori delle occasioni e degli spazi pubblici e politici (emblematica è l’istituzione fascista del “Dopolavoro”).
La crisi del modello fordista, tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, con l’affermazione di un nuovo paradigma definito post-fordismo o, talora, toyotismo, ce l’avevano ben spiegata negli anni scorsi, intellettuali della sinistra – oggi silenti o ridotti a corifei del lock down e del coprifuoco. L’ulteriore passaggio, nella demolizione del vecchio paradigma e nella costruzione del nuovo, realizzatosi all’alba del nuovo millennio con la globalizzazione, era stato intuito e denunciato da sociologi, politologi, storici che allora simpatizzavano per il movimento no-global, prima di convertirsi repentinamente – molti di loro – all’ideologia globalista. Oggi siamo probabilmente a un ulteriore tappa di questo processo e alcuni spunti contenuti nelle analisi suddette, ormai disertate dai loro stessi autori, e persino alcune categorie marxiane, a dispetto degli ultimi sedicenti marxisti, possono tornare utili a chiarire lo stato delle cose.
Non mi dilungo in un tentativo di descrizione del nuovo paradigma post-fordista che ha nella globalizzazione il suo fattore e nel contempo il suo esito, ma ne sottolineo solo un elemento cruciale, il più importante per il nostro discorso: viene meno la “crescita” (del Pil e, in particolare, della domanda, dei redditi e dei consumi), sia perché essa non è più possibile, almeno nella misura in cui l’Occidente l’ha conosciuta nei “trent’anni gloriosi” (1945-1975), sia perché non è neanche più necessaria, come invece lo era stata nell’epoca fordista, ai profitti dei grandi gruppi economico-finanziari o, per dirla in termini marxiani, alla “valorizzazione del capitale”.
Perché vi è stata questa eclisse della crescita? Si possono ipotizzare due ragioni di fondo. La prima è legata a fattori naturali: vi è un limite all’utilizzo delle risorse naturali che sono motore della crescita della produzione. L’ecologismo catastrofista e apocalittico, che ieri prediceva la “fine del petrolio”, e la fine del mondo attraverso il collasso energetico e oggi fa la stessa profezia fondandola sul riscaldamento globale, è una ideologia regolarmente confutata dalla realtà, ma il concetto di limite dell’azione umana sull’ambiente naturale è invece acquisizione irrinunciabile e da salvaguardare. E oltretutto è una prima chiave di lettura del mutamento di paradigma: oltre un certo livello, una ulteriore crescita può realizzarsi come crescita finanziaria e non più come crescita produttiva. Alla fine anche le ideologie della decrescita, antisviluppiste, non potendo veramente produrre le rivoluzioni che vagheggiano, non potendo abbattere l’attuale modo di produzione per costruirne un altro, finiscono per essere ideologie al servizio proprio di quella globalizzazione che impropriamente chiamano neoliberista o “turboliberista”.
Il secondo ordine di fattori, a mio avviso ancora più importante, è di tipo storico, geopolitico e geoeconomico. Dopo il crollo del muro di Berlino, l’Occidente ha favorito e cavalcato la globalizzazione senza rendersi conto di tutte le sue conseguenze e senza riuscire a governarle. La prima e fondamentale conseguenza è stata l’irruzione sulla scena mondiale dei paesi “intermedi” fra quello avanzati e quelli poveri, primi fra tutti Cina e India. In tal senso, l’eclisse della crescita non è un fenomeno globale, ma relativo a una parte del mondo, essenzialmente quello occidentale. Solo che i paesi che possono ora avere tassi di crescita paragonabili a quelli occidentali dei “Trenta gloriosi”, non possono però permettersi il modello fordista, innanzitutto per un vincolo demografico (la loro popolazione non consente un aumento generalizzato ed esponenziale della domanda e dei consumi) e poi anche, in certi casi (Cina in primis) per un vincolo politico. E soprattutto il modello di produzione fordista è del tutto fuori luogo nell’economia globalizzata, che è quella che ha consentito l’affermazione delle nuove potenze economiche, ma è anche quella della “delocalizzazione”, del just in time, dello smantellamento della grande fabbrica, della massima “flessibilità” della produzione e del lavoro.
In sostanza, con la fine del fordismo non c’è più un surplus di ricchezza da redistribuire, perché la fine del fordismo è, in Occidente, la fine della crescita e perché, dove la crescita ancora c’è, mancano le condizioni demografiche, sociali, politiche per una redistribuzione. Il nuovo paradigma è allora quello di una “società competitiva senza crescita”. Questo tipo di società – lo ha scritto Ricolfi – è una società “a somma zero” dove, come nelle teorie dei giochi, non possono vincere tutti, ma ad un vincitore deve corrispondere un perdente. Ciò sia a livello della concorrenza fra gli individui che al livello della concorrenza fra le varie economie. Una società in cui le risorse da distribuire non aumentano, ma i modi di appropriazione e distribuzione restano quelli dell’era delle risorse crescenti.
Da queste premesse si può capire che in questo tipo di società il “tempo libero” non può più avere il ruolo, la funzione, la dimensione che aveva nella società fordista. In quest’ultima, non si intralciava la macchina della produzione e del profitto quando si andava a cinema o a ristorante, si faceva sport, si andava in vacanza, ma anzi si metteva benzina nel suo motore Ora, invece, verranno assecondati solo quei consumi e quelle abitudini compatibili con un sistema economico fondato non più sulla crescita dei redditi, ma sulla loro compressione, oltre che su un crescente sfruttamento del lavoro – chiamatela razionalizzazione o flessibilità se vi piace di più – non solo dipendente, ma anche autonomo.
Pertanto, la società competitiva a crescita zero non può più incentivare lo svago, il divertimento, la fruizione del “tempo libero” nella misura e con le modalità in cui ciò accadeva nel periodo fordista. Naturalmente, questo non significherà la soppressione di ogni attività ludica o comunque estranea al lavoro e a quella che Marx chiamava, non senza ironia, la “riproduzione della forza lavoro” (le altre attività strettamente “essenziali” alla “nuda vita”, ossia alla vita biologica), ma una loro rimodulazione, funzionale agli interessi dei grandi gruppi economici, che sono innanzitutto quelli del web. Saranno – e già sono – promosse quelle attività di “svago” che possono svolgersi preferibilmente nella propria abitazione, attraverso una connessione internet, quasi senza soluzione di continuità, né nel tempo, né nelle modalità, con un lavoro che diventa sempre più smart o home working. La vita nel lock down della scorsa primavera è stata, da questo punto di vista, un grande esperimento sociale, l’anticipazione del mondo futuro.
Sempre meno spazio dovranno invece avere le attività di svago che si svolgono fuori e lontano dalla propria abitazione. Quelle residuali, in ogni caso, dovranno venire organizzate, programmate e anche gestite il più possibile on line.
Ma quali sono le nuove forze dominanti che stanno costruendo questo mondo distopico, quale è la nuova stratificazione sociale? E quale la sorte delle democrazie liberali?
È evidente che nella società competitiva senza crescita non possono che aumentare le distanze tra la fascia a più alto reddito e la massa dei cittadini, non possono che erodersi i redditi delle classi lavoratrici. Subito dopo, però, vengono attaccati i ceti medi. Alla compressione di stipendi e salari da lavoro dipendente – processo che dura da anni, anzi ormai da decenni, e che il cosiddetto “mondo delle partite Iva, attualmente sotto attacco, preferisce non considerare – segue l’attacco al reddito da lavoro autonomo. Nel complesso, si avvera proprio quella previsione di Marx che più di ogni altra era stata smentita nell’epoca fordista: la polarizzazione della società fra una élite privilegiata – quella che lui chiamava borghesia capitalistica – e una massa diseredata – il “proletariato” – con lo schiacciamento dei “ceti medi” e la loro “proletarizzazione”. Peccato che gli epigoni del marxismo, distratti dalle battaglie per i “nuovi diritti” lgbt, dall’ecologismo “gretino”, dal terzomondismo immigrantista, non si siano accorti di questo fenomeno, di questa tardiva rivincita del filosofo di Treviri, e delle reazioni che produce nei ceti medi impoveriti, bollate, sbrigativamente, come “populismo”, “sovranismo”, se non addirittura xenofobia, razzismo e neofascismo.
Tuttavia, quando si cerca di definire la nuova classe sociale dominante, le categorie di Marx tornano inservibili, sebbene i processi che hanno portato alla formazione di questa classe sociale si possano ancora in parte leggere con concetti marxiani. Parlare di “borghesia capitalistica” è riduttivo e fuorviante. Le nuove élite sono borghesia capitalistica solo nel senso che sono al vertice di un sistema che certamente si fonda ancora e sempre più sulla valorizzazione del capitale. Ma questo non dice molto e spiega poco o nulla. Alla vecchia borghesia industriale ottocentesca o fordista, queste élite non assomigliano per nulla: ne sono distanti per cultura, valori, mentalità e anche per il modo stesso in cui “valorizzano” il capitale, ossia ottengono profitti, per il carattere e la dimensione delle attività svolte. L’ideologia dell’oligarchia globalista dominante non ha nulla a che vedere con il vecchio mondo borghese e, per molti versi, è il rovesciamento e la negazione di quel mondo e dei suoi valori fondamentali. E’, per esempio, l’ideologia dello sradicamento, della dissoluzione di ogni appartenenza identitaria, di ogni “comunità naturale” e anche di ogni comunità “storico-culturale” – dalla famiglia alla nazione,. Il ”politicamente corretto” è stata – ed è tuttora – l’espressione ideologica di questa oligarchia, ma i suoi pilastri o dogmi – ben delineati nel libro di Eugenio Capozzi – si sono mostrati solo parzialmente efficaci come strumenti di dominio, in quanto hanno un seguito molto limitato tra le masse e scatenano anzi reazioni conflittuali, oppure – come invece accade nel caso dell’ecologismo catastrofista e antiumanitario – ottengono un successo quasi “irenico”, ma risultano poco incisivi e pervasivi, incapaci di condizionare e manipolare profondamente la vita sociale e la stessa vita privata (che poi è lo scopo della nuova oligarchia, nella sua vocazione totalitaria, su cui torneremo tra poco).
Ma ecco che arriva la pandemia da Covid 19. Non ci sono prove sufficienti per dire che il virus sia di origine artificiale e che la pandemia sia stata costruita ad arte, sebbene qualche indizio pure esista. Quel che appare indubitabile è che un accidente naturale – se naturale è – si è prestato meravigliosamente al gioco dell’oligarchia dominante, consentendole di accelerare il mutamento epocale di paradigma e di spingerlo dove forse essa stessa non credeva di poter arrivare. Il “terrore sanitario” si è rivelato uno strumento di dominio immensamente più efficace di ogni altro già utilizzato da questa nuova classe dominante e la paura è tornata ad essere la più formidabile leva del potere. In questo caso, ha trionfato Hobbes più che Marx.
L’”emergenza sanitaria”, tradotta in “religione securitaria e penitenziale della salute” (salute come mera conservazione della “nuda vita” biologica e non certo come dinamico benessere fisico, psichico, relazionale, spirituale), ha consentito ai poteri dominanti di dispiegare pienamente la loro autentica vocazione totalitaria. L’incompatibilità tra la globalizzazione post-fordista e la democrazia – più precisamente la democrazia liberale – era un tema anni fa ancora caro a qualche residua testa pensante della sinistra (“Non affonda forse qui le proprie radici quel modello di ‘democrazia totalitaria’ che sembra in qualche modo in formazione nel laboratorio italiano”? scriveva in modo acuto e quasi preveggente Marco Revelli quasi un quarto di secolo fa). Sarebbe proprio venuto il momento di riprendere e sviluppare certe felici intuizioni, anche se non si possono scagliare contro l’antagonista politico contingente, Berlusconi allora, Salvini oggi. Per il momento, ci limitiamo a ravvisare nel nuovo totalitarismo, accanto ad elementi tipici di ogni totalitarismo, anche delle singolari differenze rispetto ai regimi novecenteschi. Il nuovo totalitarismo mira ancora al controllo e alla manipolazione delle coscienze e della mente – che è poi il suo obiettivo primario – fa sempre leva sul terrore – anche se è terrore mediato da un agente patogeno naturale e veicolato dai media e che quindi non ha bisogno – per fortuna – di un apparato repressivo ad hoc e di campi di concentramento (non ancora, quantomeno); si pone, ancor più di ieri, come potere “pedagogico-paternalistico”; ma, a differenza dei totalitarismi novecenteschi che avevano invece in questo il loro principium individuationis , non mira alla mobilitazione attiva, all’inquadramento e alla irreggimentazione delle masse, ma al contrario alla loro smobilitazione, non cerca di occupare lo spazio pubblico, ma di distruggerlo, non punta a portare il “politico” nel “privato”, ma vuole operare una completa “spoliticizzazione” della sfera personale e privata. È chiaro che tutto ciò è reso possibile dalla terza rivoluzione industriale, la rivoluzione informatica, che ha consegnato al progetto totalitario mezzi inimmaginabili al tempo del fascismo o dello stalinismo.
Elaborare una strategia di resistenza a questo incubo distopico che incombe su noi, delineare un progetto che possa salvare e rilanciare la democrazia liberale sarà l’opera dei prossimi mesi, dei prossimi anni. Un’impresa assolutamente necessaria ma che si prospetta quantomai ardua. Intanto, tornando al punto da cui siamo partiti, incominciamo a riprenderci il diritto al “tempo libero”, allo svago, al divertimento, al piacere ludico, anche e soprattutto fuori dalle mura domestiche, senza alcuna riserva, senza sensi di colpa, ma con la consapevolezza che lungi dall’essere “distrazione” dalle attività “essenziali” o semplice riposo nell’intervallo fra l’una e l’altra di queste occupazioni “necessarie” e nelle loro ancora inevitabili pause, si tratta invece di una rivendicazione di libertà, di vita e di vita sana e piena.