
Torna oggi di stupefacente attualità il Trattato del ribelle che Ernst Jünger pubblicò nel 1952, subito dopo aver inviato a Martin Heidegger quella riflessione sul nichilismo (Oltre la linea), che, con la risposta di Heidegger che giungerà cinque anni dopo, è una tappa fondamentale della filosofia del Novecento.
La traduzione italiana con la parola “ribelle” non rende pienamente il significato del termine tedesco scelto da Jünger, che è der Waldgang , letteralmente “colui che passa al bosco”. L’espressione italiana “darsi alla macchia” sarebbe invece una traduzione letterale ma equivoca e fuorviante. Il Waldgang di Jünger non è un comune bandito, ma è, secondo un’usanza medioevale, l’individuo che viene proscritto dalla società e in particolare da un ordine che lo bracca per imporgli un controllo capillare. Il Waldgang decide dunque di sfuggire, per ritirarsi in luoghi deserti e selvaggi dove condurre una esistenza libera da costrizioni, sebbene rischiosa. «Chiamiamo Waldgang», scrive Jünger «colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà» e per questo è deciso ad opporre resistenza.
Mi limito a sottolineare alcuni passaggi del discorso di Jünger che mi sembrano particolarmente utili alla lettura di situazioni odierne e che suggeriscono stimolanti, sebbene ardue, prospettive di libertà.

Valorizzare il “No”
Nella parte iniziale, Jünger svolge una penetrante critica del sistema democratico, o meglio del totalitarismo che si può annidare nelle democrazie, una critica parallela a quella che incominciava a delinearsi, ma da tutt’altra angolazione, nella scuola di Francoforte. La sua riflessione riguarda in particolare le elezioni, la scelta tra la partecipazione al voto e l’astensionismo, ma si può applicare a molte altre situazioni della vita civile in una democrazia totalitaria o in una democrazia che rischia di degenerare. Jünger rileva che al sistema di potere non conviene raggiungere il 100% dei consensi (espressi nelle urne o in altro modo). È molto preferibile che ci siano “due voti contrari” e 98 favorevoli, ossia che ci sia una esigua minoranza dissidente. Perché? Innanzitutto, perché quei due voti contrari legittimano e rendono credibili i 98 a favore. In secondo luogo, per un altro e ancor più importante motivo. Lascio la parola allo stesso Jünger:
«La propaganda ha bisogno di una situazione in cui il nemico dello Stato, il nemico di classe, il nemico del popolo, sia già stato messo fuori combattimento e quasi ridicolizzato e però non sia scomparso del tutto. Il semplice consenso non basta alle dittature: per vivere esse hanno bisogno altresì di incutere odio e, di conseguenza, di seminare il terrore».
Quei due voti contro, quella esigua minoranza di “ribelli alle regole” vengono quindi utilizzati per mostrare che «i buoni rappresentano certo l’immensa maggioranza, ma non sono del tutto al riparo dal pericolo». Pertanto, chi entra nella cabina elettorale a dire il suo “no” al sistema di potere – ma ripeto che si può pensare anche a situazioni diverse da quella elettorale – certamente compie un gesto coraggioso, ma cade anche in una trappola: «tracciando la sua croce in quel punto rischioso, il nostro elettore ha fatto esattamente ciò che il suo potentissimo nemico si aspettava da lui». Jünger, tuttavia, precisa che quel “no” non deve andare perduto – anche se «è stato dato per una causa persa» – e che anzi va valorizzato, solo che «non necessariamente esso deve comparire dove l’ha deciso chi esercita il potere. Vi sono altri luoghi in cui risulterebbe assai più fastidioso».
Più che individuare questi luoghi – Jünger fa anche alcuni esempi, ma non del tutto convincenti – si tratta di capire come valorizzare quel “no”. Per prima cosa il “Ribelle” (Waldgang) dovrà liberarsi delle vecchie idee sulla maggioranza, ossia le idee convenzionali e i luoghi comuni sulla democrazia, che purtroppo si sono affermati largamente e potentemente, nonostante già Burke alla fine del Settecento le avesse sottoposte a una critica corrosiva. Il Waldgang non deve accettare che il suo no venga “conteggiato” in quella statistica che è la democrazia elettorale (e oggi anche sondaggistica). In quel caso egli sarà uno contro mille. Ma se mettiamo da parte le statistiche per assumere come criterio il valore, ecco che la scena cambia e si capovolge: quell’unico “no”, quei pochissimi “no” vale o valgono molto più dei mille “sì”. Infatti, «nei periodi magari anche lunghi di puro dominio della forza» esistono dei singoli che conservano la nozione del diritto, pur con notevole sacrificio personale. «Anche quando tacciono, essi sono come scogli sommersi intorno ai quali le acque continuano ad agitarsi. Essi dimostrano infatti che una forza predominante, se pure riesce a modificare il corso della storia, non può creare diritto».
Da questo punto di vista, la forza del singolo in seno alle grandi masse non appare più tanto esigua. Innanzitutto egli ha sempre intorno a sé una cerchia di intimi sui quali esercita un’influenza e che condividono il suo destino. E soprattutto la presenza tra le masse di pur esigue minoranze, irriducibili, pronte a tutto, mina l’apparente forza degli stati di polizia armati fino ai denti: «tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cosa è la libertà. E non soltanto quei lupi sono forti in sé stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco. È questo l’incubo dei potenti».
Il «passaggio al bosco»
Per restare lupo tra le pecore, il Waldgang ha però bisogno del suo luogo, del suo rifugio, che non può che essere il luogo della libertà (da difendere con zanne e artigli). Qual è allora questo luogo? «Il luogo della libertà è ben diverso dalla semplice opposizione e non si trova neppure mediante la fuga. Noi a questo luogo abbiamo dato il nome di bosco».
Come si può realizzare il “passaggio al bosco”? Jünger chiarisce bene che esso non è un affidarsi alla pura immaginazione – sebbene «immaginazione e poesia appartengano di diritto al passaggio al bosco». Non è la conquista di un regno puramente interiore: questo sarebbe anzi il segno della disfatta («non è certo la fondazione di scuole yoga che può risolvere il problema»). D’altra parte, sarebbe altrettanto insoddisfacente limitarsi a un obiettivo concreto, come ad esempio una lotta di liberazione nazionale.
Innanzitutto, il «passaggio al bosco» è «un atto di libertà nella catastrofe». È dunque la scelta rischiosa di un gruppo di eletti che preferiscono il pericolo alla schiavitù.
Le condizioni per realizzare il «passaggio al bosco» implicano, oltre al rifiuto di lasciarsi imporre la legge da autorità superiori, sia con la forza che con la propaganda, anche – e questo è certamente il punto meno chiaro – l’uso non solo di idee del proprio tempo, ma la capacità di raccordarsi a “potenze sovratemporali”. In tal modo il Ribelle può «incontrare sé stesso nella propria sostanza indivisa e indistruttibile», atemporale e non risolta nel puro movimento e divenire.
Questo incontro distrugge, infatti, la paura fondamentale, quella da cui dipendono tutte le altre: la paura della morte. Sconfiggere la paura della morte è il presupposto, è la condizione necessaria e sufficiente per l’atto di libertà.
Perché la metafora del “bosco”? Il bosco è “segreto”, ma heimlich indica l’intimo, il ben protetto, il focolare, ma anche il clandestino, il perturbante, l’inquietante.
In questa luce, il bosco è la grande casa del pericolo di annientamento, della morte, che occorre attraversare per liberarsi dalla paura, per morire e risorgere simbolicamente.
Vincere la paura della morte è vincere ogni altro terrore. Qualsiasi paura è paura della morte. L’uomo che riesce a strapparle terreno «può imporre la sua libertà in ogni altro ambito governato dalla paura».
Ciò è necessario, perché la resistenza del Ribelle deve essere assoluta, non deve conoscere «neutralità, remissione o reclusione in fortezza».

Il coraggio della libertà
Il Ribelle è sempre un singolo e deve dare prova di grande coraggio. Le masse, infatti, «si trovano in una situazione che impedisce loro di vedere le violazioni della Costituzione. Una volta perduta, questa consapevolezza non può essere artificialmente recuperata. La violazione del diritto assume talvolta apparenza di legalità», specie quando il partito al potere conquista il consenso della maggioranza. «La maggioranza può contemporaneamente agire nella legalità e produrre illegalità: le menti semplici non afferreranno mai questa contraddizione». A questo punto, «i soprusi possono farsi sempre più feroci e diventare veri e propri delitti contro determinati gruppi. Chi è stato testimone di queste azioni sostenute dal consenso di massa sa che con i mezzi tradizionali si può fare ben poco per opporsi».
Infatti, «il vero problema è piuttosto che una grande maggioranza non vuole la libertà, Anzi ne ha paura. Bisogna essere liberi per volerlo diventare, poiché la libertà è esistenza».
Il singolo deve quindi farsi «da solo, paladino del diritto persino contro lo strapotere dello Stato».
I luoghi, le occasioni, le modalità di questa resistenza non possono essere decisi apriori: «il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto».
Oggi più che mai.