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LE “RIFLESSIONI” DI EDMUND BURKE: I PERICOLI DEL CENTRALISMO “GIACOBINO” E DELLA “DEMOCRAZIA ASSOLUTA”. UN MONUMENTO DEL PENSIERO LIBERALE.

Le Riflessioni sulla Rivoluzione francese (Reflections on the Revolution in France) di Edmund Burke andrebbero più che mai rilette e considerate con attenzione, non solo perché si tratta di un grande classico del pensiero politico, ma perché quello di Burke è uno dei pochi testi dotati di una autentica qualità “profetica”. È infatti veramente impressionante che Burke, nel 1790 e quindi appena agli inizi del processo rivoluzionario, ne sappia leggere e prevedere con grande lucidità non solo gli sviluppi, gli esiti, la deriva a più breve termine – il Terrore, Napoleone – ma persino l’influenza determinante sulla vicenda politica e culturale dell’Occidente nei decenni e nei secoli successivi. Le Riflessioni offrono così una chiave di lettura non convenzionale sia sulla Rivoluzione che su questa più ampia vicenda e anche un sorprendente presagio di tendenze e fenomeni strettamente attuali.

In testi divulgativi e manuali scolastici spesso Burke viene erroneamente inserito nel filone del pensiero “reazionario” dell’età della Restaurazione o almeno considerato uno dei precursori di tale corrente. In realtà, a parte l’elemento cronologico, comunque decisivo, che Burke scrive, come si è detto, nel 1790, è la sua biografia politica che impedisce di assimilarlo al pensiero reazionario. Burke non faceva parte dei tories, ma dei whigs e per giunta dell’area più avanzata dei whigs e non di quella moderata. Aveva sostenuto l’allargamento del suffragio elettorale, la separazione fra Stato e Chiesa anglicana, i diritti dei coloni americani, quelli della minoranza cattolica ed era schierato per gli interessi commerciali e industriali piuttosto che per quelli della tradizionale proprietà terriera.

Per questo, la posizione nettamente critica da lui assunta nei riguardi della Rivoluzione, che era invece guardata con simpatia e in certi casi anche con entusiasmo dai whigs “progressisti” (almeno in quel primo momento) suscitò sconcerto e gli valse delle ingenerose e anche singolari accuse, da quella di essersi “venduto” ai tories a quella della improvvisa “follia”.

In realtà, Burke smaschera innanzitutto l’equivoco in cui stavano cadendo i club inglesi filo-rivoluzionari, che volevano legare l’ ‘89 francese alla Glorious revolution del 1688 e che in tal modo interpretavano la Rivoluzione francese come ispirata a un modello d’Oltremanica e la salutavano come il segno che la Francia si era finalmente messa sulla stessa linea di progresso sulla quale l’Inghilterra l’aveva solo anticipata, anticipando a sua volta gli altri paesi d’Europa e fornendo a questi un preciso indirizzo e una meta.

Burke – ed ecco un primo grande elemento di attualità del suo discorso –  disconoscendo e spezzando del tutto questo presunto rapporto di continuità tra Seconda Rivoluzione Inglese del 1688 e Rivoluzione francese, muove una sorta di critica preventiva alla convenzionale interpretazione storiografica marxista del “ciclo rivoluzionario borghese moderno”, che lega in un unico processo storico le rivoluzioni inglesi del Seicento, la Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese, i moti liberali e costituzionali del primo Ottocento e l’esplosione rivoluzionaria del 1848: nel 1688 non era avvenuta una rivoluzione come rottura di un ordine antico, ma vi era stato una sorta di ritorno alle origini, il ripristino di una tradizione, piuttosto che un balzo in avanti nella storia. Quella inglese era stata una rivoluzione conservatrice o restauratrice diretta contro l’assolutismo cattolico di Giacomo II. Lo stesso concetto valeva per la Rivoluzione americana, in quanto era stata la corona a ledere le antiche prerogative dei coloni, disconoscendo a loro tra l’altro quel diritto che proprio il 1688 aveva consacrato (no tax, without representation). Al contrario, la Rivoluzione francese era una forzatura della storia, un tentativo di sradicare e cancellare tradizioni secolari, imponendo un nuovo ordine innaturale e artificioso.

Su questa base, si possono così delineare nella riflessione di Burke, tre nuclei tematici, di estremo interesse anche per la riflessione politica attuale, in quanto offrono, a partire dal giudizio critico sulla Rivoluzione francese, una prospettiva completamente diversa e per certi versi antitetica a quella della cultura progressista egemone: a) la critica ai “diritti dell’uomo”; b) la contrapposizione fra un modello “francese”, ossia giacobino, che si affermerà poi universalmente, e un modello – o piuttosto una prassi politica britannica; c) la critica della democrazia e la differenza fra costituzione liberale e costituzione democratica (volendo, fra democrazia liberale e “democrazia assoluta”)

La critica ai “diritti dell’uomo” dell’89.

Burke era certamente favorevole a quei diritti, come l’habeas corpus, la libertà individuale di pensiero e di espressione, il diritto alla proprietà privata, che vedeva come l’evoluzione storica, naturale, lenta e graduale di una comunità e che non contrapponevano questa comunità agli individui, non ponevano in tensione e in conflitto i “diritti collettivi” di questa comunità alle libertà individuali.

I diritti dell’ ‘89 sono invece per lui una costruzione metafisica e astratta, elaborati da una minoranza autoproclamatasi rappresentante della nazione, che pretende di imporli con la coercizione. Sono una nuova religione, una fede secolarizzata e producono effetti distruttivi.

La preoccupazione di Burke – nota Marco Gervasoni nella introduzione a una recente edizione dell’opera – nasceva dal fatto che egli credeva che, come è poi avvenuto, la rivoluzione non si sarebbe limitata a cambiare la Francia, ma, in nome di un credo universalistico, quasi religioso, avrebbe cercato adepti ovunque, sarebbe stata spietata contro chi vi si opponeva ed i suoi effetti sarebbero durati per secoli.

E difatti i “diritti dell’uomo” in questi due secoli si sono dilatati, divenendo prima diritti sociali e collettivi, contrapposti spesso alle libertà individuali (ne abbiamo visto un clamoroso recente esempio, nella soppressione temporanea di nove articoli della Costituzione e delle relative libertà in essi sancite, in nome del “diritto alla salute”) e infine diritti dell’individuo a disporre totalmente di se stesso e della propria vita (in realtà con la trasformazione di desideri e bisogni in diritti).

Gli altri due temi, la differenza fra modello francese e britannico e fra libertà e democrazia, sono già enucleati nella polemica di Burke con i sostenitori inglesi della Rivoluzione francese – il motivo occasionale dello scritto – che confondono, come si è già detto, quest’ultima con la Rivoluzione del 1688. L’equivoco nasce dalla loro errata interpretazione della “Gloriosa Rivoluzione”, con la quale, secondo loro, gli inglesi avrebbero acquisito il diritto di scegliersi i governanti e di destituirli “per cattiva condotta”. In realtà, i principi del 1688 sono contenuti nel Bill of Rights che, scrive Burke, non fa alcun cenno a queste presunte prerogative “democratiche” (di quella che Burke definisce, come vedremo, “democrazia assoluta”). La dichiarazione dei diritti che è “pietra angolare della nostra costituzione” è invece correttamente conosciuta come “Atto per dichiarare i diritti e le libertà del suddito e per regolare la successione della Corona”. Parla dunque di libertà, non di democrazia.

La monarchia ereditaria, con le regole fissate per la successione (condizione per i re è di essere protestanti e ovviamente di rispettare la dichiarazione dei diritti), e non il diritto del popolo di scegliersi i propri governanti, è vista come garanzia di tutela delle libertà. Alla monarchia ereditaria, così configurata, corrisponde infatti la garanzia di conservare le libertà come diritto ereditario. Il sistema inglese mette in risalto proprio i vantaggi di considerare le proprie libertà qualcosa di ereditario, ossia radicato in una storia e in una tradizione. In tal modo la libertà non viene sottoposta “all’insolenza dell’ultimo arrivato”.

Burke respinge tanto il fanatismo dogmatico di chi pretende che il potere reale ereditario naturale, inalienabile e inviolabile, di “diritto divino” sia l’unico governo legittimo, quanto il fanatismo dogmatico di chi ritiene che unico governo legittimo sia quello fondato sull’arbitrario potere popolare e che una elezione popolare sia l’unica fonte legittima di sovranità.

Fra l’assolutismo monarchico di diritto divino e l’assolutismo democratico – in fondo due uguali ed opposte religioni – Burke è per un liberalismo fondato sulla storia e sulla tradizione.

Burke descrive così quello inglese come un sistema basato sull’equilibrio tra elementi, interessi e opinioni diverse, con la monarchia come garante che nessuna delle parti possa deviare dal posto ad essa assegnato. Gli stessi vantaggi, peraltro, aveva la Francia negli Stati Generali, ma ha scelto di ricominciare tutto daccapo.

E qui si mostra l’opposizione fra i due sistemi, l’uno pratico, empirico, fondato sulla tradizione e sull’esperienza, che procede lentamente, gradualmente, quasi per tentativi ed errori; l’altro astratto, “metafisico”, che pretende di conformare la realtà a un disegno, a una visione elaborati a tavolino: Ma “la scienza della costruzione, del rinnovamento o della riforma di uno Stato, non deve essere insegnata a priori, così come ogni altra scienza sperimentale”. Quando invece la si insegna a priori, accade che si pongano dei diritti astratti e che si pretenda di imporli alla realtà, forzandola, senza rendersi conto di cadere così in una inevitabile eterogenesi dei fini:

“Questi diritti astratti, quando entrano nella vita pratica, sono come raggi di luce che penetrano in elemento naturale denso, e per le leggi della natura vengono rifratti e riflessi in così tanti modi che diventa assurdo parlarne come se mantenessero la semplicità della loro direzione originale”.

Così non si capisce che in una società civile i diritti dell’uomo non sono altro che i suoi vantaggi e questi “sono spesso in equilibrio tra le sfaccettature del bene, a volte nei compromessi tra il bene e il male, e talvolta tra due forme di male.

La ragione politica è un principio di calcolo: è una lunga serie di somme, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni; tutte operazioni morali, e non metafisiche o matematiche”.

È quindi assolutamente erroneo che in Francia ci si stia ispirando all’Inghilterra, scrive Burke al suo amico e corrispondente francese (le Riflessioni sono un pamphlet in forma epistolare).

Si sta invece seguendo una strada precisamente opposta. I “vostri nuovi statisti” pensano che il fatto che «un sistema sia vecchio sia un motivo sufficiente per distruggerlo. Quanto alla costituzione di un nuovo sistema, non si preoccupano affatto della durata di un edificio costruito in fretta; perché la durata non è uno scopo per coloro che pensano che poco o nulla sia stato fatto prima di loro e che ripongono tutte le speranze in nuove scoperte […] Pensano che il governo possa variare come le mode e con il minimo effetto negativo e che non vi è alcun principio di attaccamento a qualsiasi Costituzione dello Stato se non un senso di convenienza attuale».

Il modello inglese si basa invece, come abbiamo visto, sulla persistenza di istituzioni diverse e in equilibrio fra loro.

Cambiare radicalmente la costituzione esistente in base a un disegno astratto, metafisico è facile, non essendoci nessun bisogno di confrontarsi con l’esperienza reale. È opera non da statisti, ma da agrimensori. In Francia si è usata una cattiva metafisica, una scadente geometria, una falsa aritmetica. Ma anche se queste scienze fossero state usate adeguatamente e come scienze esatte non si sarebbe ottenuto null’altro che “una bella e attraente apparenza illusoria”. In questa opera rivoluzionaria non si trova “un benché minimo riferimento a qualche principio morale o politico; nulla che si riferisca agli interessi umani, alle loro azioni, alle loro passioni, alla loro necessità”. Vi risalta una impressionante “non conoscenza dell’uomo”.

Usando questo metodo geometrico-metafisico i rivoluzionari trattano in realtà la Francia come un paese conquistato e occupato al quale imporre il loro progetto facendo tabula rasa dell’ordine preesistente, delle tradizioni, dei costumi. Hanno ridotto gli uomini a dei soprammobili, da usare e cambiare di posto a loro piacimento.

Vale appena il caso di notare come questo modello geometrico-metafisico, astratto e implicitamente dispotico, con la sua identificazione fra l’”innovazione”, qualunque essa sia, e il bene di una istituzione o di un paese, sia quello che si è affermato, innanzitutto nella variante leninista del giacobinismo e in quella statalista socialdemocratica – in genere in tutte le forme di centralismo politico – e che più che mai risulta dominante ai nostri tempi. Basti pensare alle varie “riforme” che sono state imposte nei più diversi ambiti, dalla costruzione dei trattati europei alle ormai innumerevoli “riforme” della scuola.

È qui anche opportuno sottolineare come il termine riforma in Burke non è quello che si affermerà a partire dal XIX secolo, non significa dare una “nuova forma”, ma significa restituire qualcosa al suo volto originario, introducendo delle novità che le consentano di tornare ad essere solida. È come la restaurazione di un edificio antico per impedire che esso crolli.

La critica alla “democrazia assoluta”

Si è quindi visto come il sistema inglese consista per Burke in una “terza via” tra assolutismo monarchico e assolutismo democratico, mentre quello francese – che di lì a poco avrebbe trovato nei giacobini i loro più coerenti esponenti – riconosca solo la democrazia assoluta come alternativa alla monarchia assoluta – e quindi al dispotismo. Il problema è che questa alternativa cade essa stessa nel dispotismo. La nozione di “democrazia assoluta” come governo dispotico, in Burke, anticipa le teorie della “democrazia totalitaria” (Talmon e altri) e la differenza fra questa democrazia totalitaria o i regimi populistico-plebiscitari, da un lato, e la democrazia liberale dall’altro (anche se bisogna dire che la nozione di democrazia liberale è ancora sconosciuta a Burke).

Vediamo, allora, quali sono per Burke, più precisamente, i “semi del dispotismo” presenti nella democrazia.

Il primo di essi è la tendenza della democrazia a pretendere l’uguaglianza fra gli uomini. Qui Burke anticipa la tesi di von Hayek – opposta a quella di Bobbio – sulla inconciliabile tensione che sussiste fra libertà e uguaglianza. Gli uomini sono diversi, per natura e per storia, e dunque il principio di uguaglianza necessita del dispotismo per attuarsi. Ancora una volta, però, Burke non intende affermare un principio astratto, uguale ed opposto a quello dei suoi bersagli polemici, ma vuole fondarsi su considerazioni empiriche e pratiche: chi vuole livellare la società è destinato a fallire, perché la natura si ribella all’uguaglianza; egli ottiene solo di mettere al vertice o comunque in una posizione non consona, chi dovrebbe stare in basso o occuparne un’altra, minando così la stabilità del tutto. L’esempio dell’Assemblea del Terzo Stato, costituitasi in Assemblea Nazionale, è illuminante: la massa dei rappresentanti del Terzo Stato agli Stati generali era costituita da oscuri avvocatucoli di provincia, come quella del clero era formata da curati di campagna. Uomini inadatti a governare uno Stato. Queste due componenti, unendosi, formarono una massa di ignoranti, arroganti, “avidi di razzie”.

Che 24 milioni di uomini debbano prevalere su 200.000, scrive sarcasticamente Burke, sarebbe vero solo se la Costituzione fosse un problema di aritmetica. Di fatto si è creato un governo di cinquecento oscuri avvocati e curati di campagna che non poteva reggere le sorti di 24 milioni di uomini.

Un secondo seme autoritario presente nella costituzione democratica sta nel fatto che il potere popolare è privo di limiti, contrappesi e sanzioni: una “democrazia perfetta” è il sistema più “spudorato”, in quanto “nessuno teme di poter diventare oggetto di punizione”, perché il popolo in se stesso non può esserlo. Se non che il popolo nel suo complesso non ha maggior diritto di un re a un potere arbitrario e ne ha ancor meno capacità. Per questo «non dovrebbe mai, sotto una falsa dimostrazione di libertà, ma in verità per esercitare in modo perverso un potere innaturale, tirannico per l’esattezza, pretendere dai reggitori dello Stato non dico un’intera devozione al proprio interesse, che è cosa legittima, ma una sottomissione abietta alla sua volontà momentanea». Una tale sottomissione spegnerebbe infatti in tutti i pretesi servitori del popolo qualsiasi buon senso ed elemento di coerenza e il popolo stesso diventerebbe “la giusta e spregevole preda dei sicofanti popolari”.

Qui si intravede con chiarezza il pericolo che il governo democratico cada nelle mani dei demagoghi (per Burke, in verità, questo è ben più che un pericolo).

Burke si ribella infine all’idea – e anche in questo il suo messaggio è per noi molto istruttivo – che un qualunque cenno critico al sistema democratico e soprattutto alla sua sottomissione alla volontà maggioritaria del momento debba portare a subire una sorta di linciaggio morale.

Possibile che non si capisca, dice in sostanza, che esiste una terza costituzione fra i due estremi della monarchia assoluta e della democrazia assoluta, un sistema di governo “misto e temperato”, possibile che la democrazia debba essere considerata l’unica forma tollerabile di governo e che appena se ne mettono in dubbio i meriti si venga “sospettato di essere amico della tirannia e per questo nemico dell’umanità”?

Gli antichi, peraltro, conoscevano bene queste costituzioni miste e non consideravano più desiderabile la democrazia assoluta della monarchia assoluta. Consideravano entrambe una forma corrotta e degenerata di altre forme più perfette. Aristotele sosteneva che la democrazia ha molti punti in comune con la tirannia.

Certamente, per concludere, in una democrazia la maggioranza dei cittadini è capace di esercitare la più dura forma di oppressione sulla minoranza sentendosi legittimata dal numero.

Non resta, per concludere, che citare, quasi integralmente, la splendida, luminosa chiusa delle Riflessioni, una degna epigrafe su una vita esemplare per onestà intellettuale e amore per la libertà.

«Ho poco che possa raccomandare le mie opinioni, se non una lunga osservazione delle cose umane e molta imparzialità. Queste sono le idee di uno che non è stato strumento di potere, né adulatore della grandezza e che nelle ultime sue azioni non desidera rinnegare le idee di tutta una vita; di uno che nella quasi totalità della sua attività pubblica non ha fatto che lottare per la libertà degli altri; di uno il cui petto non fu mai agitato da ira duratura e violenta, se non per quanto egli considerò tirannia […] Sono le opinioni di uno che desidera ben pochi onori, distinzioni ed emolumenti e che non li pretende affatto; che non disprezza la fama e non teme la maldicenza; che rifugge dalle polemiche e tuttavia vuole avanzare la propria opinione; di uno che desidera conservare la propria coerenza, ma che vorrebbe conservarla variando i suoi mezzi per garantire l’unità del fine; e che quando l’equilibrio della nave in cui salpa può essere messo in pericolo dal gravarla troppo su una sola parte, desidera portare il piccolo peso del suo buon senso dall’altra, perché l’equilibrio possa essere preservato»