Ottant’anni fa l’Italia entrava nella Seconda guerra mondiale. La storiografia antifascista, di matrice marxiano-gramsciana e radical-democratica, ha subito sostenuto, senza un vero lavoro di ricerca sulle fonti, la tesi pregiudiziale di un paese trascinato in guerra da Mussolini e da una minoranza di fascisti militanti. Una tesi che era funzionale all’autolegittimazione della classe politica antifascista e del ceto intellettuale ad essa più o meno organico. La storiografia “revisionista” che ha avuto in Renzo De Felice il suo fondatore e più autorevole esponente ha avuto il merito di porre il problema del “consenso” al fascismo e di acquisire al lavoro storico una serie di fonti molto importanti, che gli storici di ”sinistra” non ritenevano utilizzabili perché in qualche modo “prodotte” dal regime stesso o comunque ad esso riconducibili. Una motivazione davvero singolare, perché se un analogo criterio fosse adottato dagli storici dell’antichità e del medioevo, di quelle epoche storiche saremmo condannati a sapere poco o nulla.
Tuttavia, De Felice, dopo aver “sdoganato” un’ampia documentazione, si è poi limitato, spesso, a utilizzarla in modo più episodico che sistematico (e qui le critiche che gli sono state mosse dalla storiografia “antifascista” sono fondate).
Di particolare importanza, per capire che cosa pensavano effettivamente gli italiani della guerra sono i rapporti degli informatori dell’Ovra. Occorre però farne uno studio completo e sistematico, perché è necessario confrontare ciò che scrivono i diversi informatori, tra i quali vi sono quelli intellettualmente più onesti e quelli più faziosi (alcuni perchè fanatici fascisti, ma altri, sorprendentemente, in quanto avversi al regime: il capo dell’Ovra, Leto, li reclutava deliberatamente anche tra gli antifascisti, come ha poi rivelato e come conferma il fondo conservato all’Archivio Centrale dello Stato), vi sono quelli più colti e disincantati e quelli meno istruiti e più ingenui (talora particolarmente attendibili proprio perché riferiscono esattamente ciò che hanno ascoltato nei bar o nelle piazze, con una minima rielaborazione personale). Importanti sono poi anche altre fonti, come i rapporti dei questori, le relazioni dei carabinieri, le lettere di privati cittadini intercettate dalla censura.
Lo studio sistematico di tali fonti lo effettuai parecchi anni fa, pubblicandone i risultati in un volume sull’immagine e il mito di Mussolini (“Gli Italiani e il Duce”).
In estrema sintesi, riguardo all’atteggiamento, alle opinioni e ai sentimenti degli italiani rispetto alla guerra, si può dire che la primavera del 1940 e quindi le settimane che precedono la dichiarazione di guerra rappresentarono un punto di svolta. Fino ad allora, la maggioranza degli italiani non sembrava affatto favorevole ad una guerra che anzi temeva molto – avendo molti, tra l’altro, il ricordo della immane carneficina della Grande Guerra e delle difficoltà sofferte anche dalla popolazione civile. Al ritorno dalla Conferenza di Monaco, che nel settembre del 1939 aveva temporaneamente scongiurato la guerra, Mussolini ebbe accoglienze trionfali – che in quel caso non lo fecero del tutto felice – perché fu considerato il “salvatore della pace” (certamente a torto, tanto per le sue reali intenzioni belliciste, almeno a medio termine, quanto per il ruolo, in realtà del tutto irrilevante ricoperto a Monaco, dove si era limitato a proporre una bozza di accordo che Hitler stesso gli aveva fatto recapitare).
Questa viva preoccupazione e questa malcelata ostilità per la guerra non vengono meno nei mesi successivi, fino alla primavera del 1940. Già ad aprile, però, le relazioni dei questori registrano un primo mutamento dello stato d’animo della popolazione: la guerra, sebbene non sia auspicata, è ormai ritenuta “inevitabile” e, per molti, è una dura necessità comunque imposta dall’”interesse nazionale”. Questa evoluzione di quello che nel linguaggio burocratico si definisce lo “spirito pubblico”, dipende probabilmente da più fattori: il recente incontro del Brennero, fra Hitler e Mussolini, che aveva messo fine alle voci su una incrinatura dell’Asse italo-germanico; alcuni discorsi di Mussolini non pubblicati dalla stampa, ma fatti circolare in modo semiclandestino, secondo un sistema già sperimentato, che veniva utilizzato quando si voleva preparare la popolazione a sviluppi che non potevano ancora essere ufficialmente annunciati, come in questo caso, o quando si voleva che circolassero moniti e indirizzi che non si riteneva opportuno diffondere attraverso i canali ufficiali. In questi discorsi si diffondono “presagi di guerra” e si avvertono gli italiani di tenersi pronti alla cosa.
L’accettazione dell’intervento italiano come fatto inevitabile e quasi con spirito di rassegnazione, si trasforma a maggio in una sorta di consenso alla guerra, essenzialmente per effetto della travolgente avanzata tedesca sul fronte occidentale. Secondo diversi informatori dell’Ovra, si diffonde quasi un senso di impazienza: “si vuol correre subito alla guerra”, scrive un informatore il 17 maggio. “I tedeschi conquistano tanto e noi vogliamo conquistare il nostro”, si sente dire. Si teme “di arrivare in ritardo sulla pista della vittoria dell’Asse”. La persuasione che la guerra sarà facile, breve e vittoriosa riduce poi molto le ansie dei mesi precedenti, anche se non le annulla del tutto.
Si può quindi parlare di un “interventismo popolare” nella primavera-estate del 1940, che ha varie motivazioni.
La prima può apparire paradossale: da una guerra che si prospetta breve e quasi “indolore” ci si attende un lungo periodo di pace. Anche i più ostili alla guerra, riferiscono alcuni informatori, si sono convinti che l’intervento è necessario quanto meno per metter fine a un clima logorante di tensione e di minaccia. Il tema della “guerra per la pace”, caro agli interventisti democratici del 1914-15, riecheggia quindi negli umori popolari del 1940.
Un secondo fattore è il sentimento nazional-patriottico, nella sua tipica declinazione vittimistico-rivendicazionista, abilmente alimentata dalla propaganda del regime fascista negli anni precedenti: la guerra dovrebbe finalmente metter fine a una lunga serie di presunti soprusi da parte delle nazioni più ricche (le “potenze demo-plutocratiche”) e riscattare l’Italia “proletaria” vittima della prepotenza e dell’egoismo di inglesi e francesi. “È finito il tempo in cui le grasse potenze facevano cinque pasti al giorno e noi a mangiar radicchio e a stringere la cinghia”, si legge significativamente in una lettera intercettata dalla censura.
Il nazionalismo che alimenta l’interventismo popolare del 1940 trova anche motivazioni egualitarie e socialisteggianti, come già era accaduto per esempio in occasione della guerra di Libia. Emblematiche a tal proposito le parole di un tabaccaio cagliaritano, riportate da un attendibile informatore dell’Ovra: “Noi italiani abbiamo sempre lavorato per far ingrassare loro […] adesso tocca a noi, le ricchezze devono essere divise uguali come uguali devono essere nella società».
Soprattutto, ci si fida di Mussolini: se il Duce – che non viene affatto considerato un guerrafondaio, anzi – ha deciso l’intervento, vuol dire che esso è necessario, è inevitabile, porterà dei grandi vantaggi con bassissimo rischio. Nella primavera del 1940, l’immagine popolare di Mussolini è innanzitutto quella del “Padre premuroso”, che si preoccupa del benessere dei suoi figli, ossia del suo popolo, perché egli stesso è, per la sua origine, un “Figlio del Popolo”. Questo Padre premuroso può e deve anche essere, sulla scena internazionale, il “Giustiziere” e il “Vendicatore” dei torti e dei soprusi subiti dagli italiani.
Pertanto, le reazioni all’annuncio del 10 giugno, dal balcone di Palazzo Venezia, se non sono propriamente, se non in ambienti circoscritti, quelle di delirante entusiasmo descritte dalla propaganda di regime, sono compostamente favorevoli alla decisione presa.
Le cose incominceranno a cambiare solo a partire dal primo inverno di guerra, per effetto dell’inatteso prolungarsi del conflitto, per le mancate vittorie militari e le notizie delle prime sconfitte che trapelano, per le crescenti difficoltà negli approvvigionamenti, per la minaccia dei bombardamenti. Sarà il passaggio “dalla guerra immaginata alla guerra reale” che sgretolerà il consenso al regime e, alla fine, anche il mito di Mussolini.
Occorrerebbe, però, una adeguata riflessione sull’interventismo popolare della primavera-estate del 1940, riflessione che o ancora manca del tutto o esita comunque a cogliere tutte le implicazioni di quella vicenda. Occorrerebbe fare i conti sulle responsabilità collettive del popolo italiano nella tragedia del fascismo e della guerra, occorrerebbe comprendere i pericoli che derivano dall’affidarsi all’”uomo solo al comando” – inclinazione più che mai presente ai giorni nostri – e quelli che derivano, altresì, dall’idea che la decisione politica debba sempre corrispondere alle passioni, alle propensioni, ai sentimenti della maggioranza del momento, alla corrente popolare dominante, più o meno condizionata e manipolata dai media. Questi pericoli non vengono affatto cancellati quando si vive non più sotto una dittatura, ma in un regime democratico, per cui la tragica lezione del 10 giugno 1940 vale anche in tempi di democrazia. Quantomeno se la democrazia in questione non ha il vincolo e il freno di solide regole e istituzioni liberali, ma è esposta alla degenerazione totalitaria.